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Ricordi perduti tra Londra e Bologna: intervista con gli After Crash in occasione del Biografilm Festival

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Dopo le ultime note di un sudato soundcheck d’estate, ci spostiamo con Francesco e Nicola, gli After Crash, all’ombra di qualche albero all’interno del parco del Cavaticcio, per parlare di musica, di amicizia e di Marzullo. Incredibile ma vero.Ecco cosa ci hanno raccontato.


Voi avete creato un disco che sta riscuotendo un certo successo, il titolo è Lost Memories. Parlateci un po’ del concetto di ricordi perduti: c’è un’accezione positiva? O è più malinconica?

Francesco: il disco è principalmente incentrato sui ricordi quindi di base il sentimento è quello, ma il nostro intento era quello di fare una rilettura in chiave positiva della malinconia, a grandi linee.

Sappiamo che avete vissuto a Londra, e Francesco ci abita ancora, come è viverla? Ci sono pezzi legati in modo particolare alla città?

Nicola: si abbiamo passato più o meno sette anni insieme in Inghilterra, ed è un ambiente che ha influito molto sulla nostra musica e anche su questo disco. Sicuramente Overrated è il brano più londinese, ma anche Timeless Room.

Inoltre sappiamo che avete conosciuto diverse persone che hanno collaborato con voi, vero?

Nicola: si, nella traccia numero 4 se non sbaglio…

Francesco: quella traccia si chiama Leica, un ragazzo che italo americano ma che abbiamo conosciuto a Londra, poi invece in Don’t Change For Me abbiamo tagliuzzato la voce di una ragazza che era all’università con noi.

Nicola: e gli arrangiamenti sono stati curati da una ragazza che si chiama Nina che era in corso con noi al master… ciao Nina! Non so se ci guarderai ma io ti saluto lo stesso! Bella Nina.

Avete in mente collaborazioni future?

Francesco: certo, con Angelo Branduardi sicuramente! Ci piacerebbe moltissimo con lavorare in qualche modo con Marzullo.

Nicola: ma anche solo essere intervistati da lui! Quello sarebbe il sogno della mia vita, è uno dei giornalisti più influenti degli ultimi trent’anni in Italia.

Che domanda vorreste farvi fare da Marzullo?

Francesco: ma tanto lui ci direbbe fatti una domanda e datti una risposta!

Nicola: ecco, io a quella non saprei rispondere.

Provate!

Nicola e Francesco: è troppo difficile!

E che domanda vorresti farti in questo momento?  

Nicola: dove vado a cena stasera, visto che i miei sono fuori? Ma c’è da mangiare qui, Uda (Giovanni Uda Gandolfi, ndr) si prenderà cura di me!

Francesco: io forse mi chiederei quando mi taglio i capelli…

Parlando del live, per un disco come quello che è Lost Memories, quali sono le differenze tra l’ascolto al concerto è quello individuale?

Nicola: beh in realtà è stata una cosa abbastanza intuitiva, non è che abbiamo creato un disco fatto apposta per una musica da cameretta che ti ascolti da solo, in realtà varie interpretazioni. Io non so… non so se riesco a definirla di massa, anche perché non so cosa sia la musica di massa in realtà… È un disco che è stato scritto per persone sole quindi deve fare compagnia diciamo che quello il messaggio.

Francesco: ora parte un applauso!

Per quanto riguarda il brano Timeless Room, si riconosce un po’ di black sound, vero?

Nicola: esatto, e Beyoncè e anche Rihanna. Ci piace molto la black music!

Francesco: si, già che ci siamo salutiamo Beyoncè! Comunque abbiamo una grande passione per la black music, forse non è una cosa che si può sentire molto nel tipo di musica che facciamo però a livello di gusti personali ci è sempre piaciuta molto.

C’è un brano in particolare in cui voi avete inserito un monologo estrapolato da un film (monologo finale di Steiner, tratto dal film La dolce vita, ndr): è stata una scelta legata a qualcosa di personale?

Nicola: in realtà eravamo io e Francesco a casa con il nostro coinquilino, Eugenio, e avevamo appena finito una maratona di Fellini. Ci aveva molto colpiti quella parte di monologo e ci stava molto sul brano, quindi l’abbiamo scaricata.

Francesco: si, ci stava proprio bene, sia con la musica che con l’interpretazione che volevamo dare al pezzo.

Visto che il filo rosso sono i ricordi, la scelta di questo monologo è qualcosa di più legata al tempo che passa e al ricordo finito o al voler ripetere un’esperienza?

Francesco: beh è chiaro che quando ricordi un qualcosa che hai vissuto con piacere la nostalgia consiste nel fatto che sai che è passato, ed è difficile che tu lo viva di nuovo, quindi forse la nostalgia si crea proprio per questo… Però secondo me più che nostalgico quel discorso è quasi di una rassegnazione serena… In realtà poi dipende da come la si legge, varia da persona a persona.

Nicola: secondo me non è così drammatico come messaggio nonostante… Insomma se uno ha guardato il film La Dolce Vita sa che fine fa Steiner… Però secondo me anche molto attuale come concetto, e non così drammatico appunto.

Che cosa state ascoltando ultimamente?

Nicola: Radiohead, sto ascoltando solo quelli.

Francesco: idem!

Ascoltate anche qualcosa di colleghi italiani?

Nicola: mah io in realtà sono andato a sentire e ho anche preso il vinile degli Action Dead Mouse che tra l’altro sono di Bologna, li ho apprezzati molto.

Tornando a Marzullo, vogliamo assolutamente sapere le due domande che gli fareste se doveste essere voi ad intervistarlo?

Nicola: perché ti sei laureato in chirurgia e fai quel programma? Perché?! E poi gli chiederei quanto gli piace il suo lavoro? Perche io ci vedo davvero tantissima passione nelle interviste che fa, perché è molto umano e poi, ancora nessuno lo ha capito in trent’anni, lui prende per il culo tutti! E ancora nessuno lo capisce. È un grande, è un genio.

Francesco: io gli chiederei se è sposato? Perché c’è del mistero intorno alla vita privata di Marzullo… Farei un po’ di gossip.

Nicola: secondo me diventeremmo subito amici con Marzullo.

Francesco: si, grandi cene di pesce!

Per concludere, cosa farete quest’estate?

Nicola: ad agosto suoneremo a Fermo, la serata di ferragosto invece la faremo suonando a Ravenna, e il 27 agosto ad AMA il festival in Veneto. Ci vediamo lì!

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Foto e articolo a cura di Giorgia Salerno

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INTERVISTE

AFTER CRASH

Un romantico a Milano? Meglio quattro: ecco perchè alla fine hanno ragione i Canova (e menomale)

Questa è la storia di Matteo, Fabio, Federico e Gabriele, quattro romantici (guai a dirlo davanti a loro) che si sono chiusi in sala prove durante gli anni migliori delle loro vite, e poi su quelle vite ci hanno scritto un disco. Quando finalmente ne sono usciti, increduli e stanchi, ad aspettarli c’eravamo noi, c’eravate voi, c’eravamo tutti. È il disco che aspettavamo, il disco che loro non si aspettavano. Qui sotto ci raccontano perché.  Li abbiamo incontrati a Bologna in una delle loro sudatissime date in giro per l’Italia, per fare un po’ di vita sociale e capire come mai alla fine avevamo ragione tutti.

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Eccoci qui, allora come state? Come vi sentite dopo questo concerto? 

Gabriele: ciao, grande, stiamo bene. È stato liberatorio!

Libertà! Raccontateci un po’ di voi, come è iniziato tutto questo?  

Matteo: a parte gli scherzi, ci sentiamo davvero abbastanza liberi. La band è nata così: “oh guarda che ho scritto questi pezzi, li facciamo, che dici?”. Siamo stati per tanti anni fuori da questi circuiti indie del cazzo, a farci i cavoli nostri, tra prove e più di duecento date in giro, in questi anni, suonando specialmente in Lombardia. Avevamo un sacco di canzoni ma, sai, con il passare del tempo queste cose quasi le vuoi buttare via e pensi: dai avete ragione, fa tutto schifo.

Quando è stata la svolta? 

Matteo: l’anno scorso in questo periodo ci eravamo resi conto di avere dei pezzi che quadravano tra di loro. Visto che oggi su Internet rimane sempre traccia di tutto, mi sono detto: va bene, ora siamo sicuri che se lasciamo questa traccia di noi non ce n’è vergogneremo e non dovremo pentircene tra un anno. Quindi siamo andati a registrare il disco così come lo suonavamo in sala, e lo abbiamo registrato in sei giorni. Tra l’altro pensa la cosa divertente: noi non siamo dei professionisti, cioè nel senso…

Federico: …siamo autodidatti! 

Non avete studiato musica?  

Matteo: no ma va! Ci siamo guardati i video dei Blink! (Ridono). Infatti siamo ancora molto meravigliati da tutto questo. Mentre provavamo il disco pesavamo: speriamo di fare almeno una data! Che ci caghi qualcuno! Quindi poi abbiamo sposato la politica del fare il tour ovunque ci capitasse di poter andare. Solo che poi ci sono arrivate tantissime richieste quindi ora viviamo facendo spostamenti assurdi tipo Pescara-Milano in giornata.

Come vi spostate? Avete già il furgone da super band? 

Fabio: in aeroplano!

Matteo: eh no… per ora no, siamo indipendenti insieme a Maciste Dischi, che è la nostra squadra.

Come è nata la collaborazione con Maciste Dischi? 

Matteo: guarda noi a prescindere del genere che facciamo, che può essere considerato da alcuni pop e da altri indie (però a noi interessa poco), vogliamo essere indipendenti. Le cose che scriviamo vogliamo che finiscano registrate senza alcun tipo di modifiche, senza qualcuno che arrivi e ti dica: no ma guarda, qui sarebbe meglio cambiare… No, qui non si cambia un cazzo. È così, punto!

Bravi! Poi alla fine essere indie è anche questo, no?  

Fabio: si, è un’attitudine.

Matteo: a nostro rischio eh. Stiamo parlando di indie come sinonimo di atteggiamento, che poi è rock’n’roll. Solo che ora, ultimamente, indie è diventato quella roba là. Ora cos’è l’indie? Ora l’indie siamo noi ragazzi che stiamo crescendo con queste canzoni e quelle di altri: fra vent’anni quel che ci resterà sarà questo ricordo, ricorderemo i nostri giorni con questa musica. Abbiamo sempre ascoltato tanta musica vecchia italiana… che poi è più nuova di quella nuova che c’è adesso: i pezzi di Battisti sono più attuali dei nostri! E tanta musica inglese… però ora, ti dico, siamo in difficoltà perché non troviamo musica internazionale che ci piaccia. Non ci piace la trap, non ci piace il rap…

Neanche la trap italiana? 

Federico: No, guarda non ne sappiamo nulla.

Fabio: A parte avere incontrato una volta in autogrill Sfera Ebbasta, per caso! (Ride). 

Matteo: mah ti dico più che trap ora stiamo ascoltando molta musica italiana ma di tutt’altro genere. È uscita tantissima roba tutta insieme, è assurdo. In questi giorni siamo in angoscia perché il nostro cuore è diviso tra Baustelle e Brunori. Io devo dire che, personalmente, questo periodo l’ho superato con Brunori. Sono entrambi dei capolavori eh, però in Brunori sento una verità che mi ha colpito. È un momento incredibile: se il nostro disco fosse uscito due anni fa o tra due anni sarebbe stato completamente diverso. Ci troviamo catapultati in questa cosa e ci piace, ci fa bene. 

È arrivato il momento di fare la domanda banale, ma ci tocca: perché vi chiamate Canova? 

Gabriele: complimenti!

Matteo: te l’avevo detto prima che ce lo chiedevano, vedi?! No a dire la verità noi cercavamo un nome italiano. Quando abbiamo iniziato a suonare non c’era ancora tutta sta roba delle canzoni italiane che spaccavano e chi cantava in italiano era uno sfigato, veramente. C’erano un sacco di tribute band, un sacco di band anche italiane ma che suonavano a cazzo, così… invece a noi non ce ne fregava nulla di seguire questa corrente, già all’epoca, e ci siamo detti: vogliamo suonare in italiano. Quindi abbiamo pensato che dovevamo trovare qualcosa, un nome per darci un’identità vera e propria. Lui aveva proposto Oasis (risate) ma solo per il nome del succo di frutta!

E come ci siete arrivati a Canova? 

Matteo: un giorno eravamo in giro per Milano e c’era una mostra in Piazza della Scala, a Palazzo Reale. Sulla balconata c’era questo drappo enorme con scritto Canova a caratteri giganti, ovviamente era una sua mostra. Ci siamo detti: pensa se fosse un nostro concerto, guarda quanto è grande questa scritta! Siamo noi quella roba là! Allora niente, abbiamo fatto un gruppo WhatsApp ed è partito tutto. Poi abbiamo trovato anche un significato a tutto questo… almeno per dirlo nelle interviste! (Ride). Però ci piglia! Praticamente Canova, come tu ben sai perché hai studiato arte, prendeva l’arte classica e la ributtava nel suo ‘800. Poi vabe gli piacevano le donne, che è una cosa che comunque…

…quella ci sta sempre, non manca mai.

Matteo: È un po’ una fissa! No però il senso che abbiamo trovato noi è che visto che ci piace la forma canzone, quindi tutto quello che c’era negli anni ’60 e ’70, il nostro obiettivo è quello di attingere dal vecchio per rifarlo oggi. Quindi magari aggiungendo puttanate e si, dai, due cazzate… (ride). No vabe scherzo, però è una roba del genere. Prendere dal vecchio, mischiarlo con quel che c’è di attuale, con un linguaggio nuovo. Nei nostri testi ci sono molti riferimenti a come si parla: ci sono anche dei pezzi di gergo preso da Internet. Quando uno scrive un post su Facebook pensa ad acchiappare approvazione, e alla fine le canzoni sono sempre state anche questo, oltre che uno sfogo personale. Quindi secondo me bisogna scrivere le canzoni così come si parla, così come si farebbe un post su Facebook.

Ma visto che questo è un disco d’amore… 

Matteo: …ah è un disco d’amore?

Beh si è un disco che riguarda l’amore, no?

Fabio: mah, un amore un po’ brutto…

Matteo: è un amore sindacale! (Risate)

Come lo definireste?

Matteo: un disco sincero, di vita di tutti i giorni. Nella vita di tutti i giorni ci sono tanti innamoramenti, senza che te ne accorgi (ride). Se vai in metro a Milano, tra uomini e donne… no, non si può, non ce la fai! Sei single per forza!

Ci lasci il cuore nella metro?

Matteo: si! Infatti hanno creato un’app per beccare la gente che incontri per caso in metro che si chiama… non mi ricordo…

Fabio e Federico: ma figurati!

Dai che ti ricordi!

Matteo: No, ti giuro! Ma tanto ci ho beccato solo cinesi, è incredibile. Comunque si ti volevo dire che a parte tutto il nostro non è un disco concept. È un disco di canzoni, così, da sole. L’ultima che è uscita fuori è Manzarek che è venuta fuori a marzo dell’anno scorso, e la prima è Aziz che invece è di un anno e mezzo fa. Non ha un filo conduttore, se non le nostre vite, sono queste il collante del disco. E basta.

Quindi non siete innamorati? 

Matteo: siamo innamorati… di una vita fallimentare.

Bellissimo, questa me la segno.

Matteo: se ci pensi ha senso, è un titolo bellissimo.

Titolo del prossimo album? Per qualche progetto futuro?

Matteo: no il prossimo album si chiamerà Squarez! (Risate). No però, ti dico, ora non stiamo assolutamente pensando a cosa faremo in futuro. I progetti futuri consistono nell’andare ovunque e farci sentire. Il divertimento, quello è secondario, a dire il vero non siamo così entusiasti, non siamo gente gasata… devo dire che siamo molto concentrati, anche perché ti dico, noi non sapevamo che sarebbe stato così, ma se fai quattro date di fila non è che puoi fare il coglione. Se arrivi senza voce so’ cazzi.

Quindi vita morigerata?

Matteo: no beh quello no.

Gabriele: no mai!

Matteo: no dai, però siamo in quattro quindi ci gestiamo… uno dice: oh sei sicuro che vuoi berti ancora sei birre? E l’altro: no dai vai a dormire. Facciamo squadra, così.

In uno dei vostri brani parlate di felicità. Che cos’è per voi? 

Federico: è una passione.

Matteo: io chiederei a Fabio prima di tutti. Lui dice la felicità è quella lì! (Ride). No secondo me la felicità è un po’ come tutti i sentimenti. Come diceva Fabri Fibra (vedi che citazioni ti faccio?) la felicità è una cosa che arriva a tratti, un po’ come tutte le cose. Cioè tu non è che sei triste e basta… ti arriva la botta di felicità così come ti arriva la botta di tristezza o di sonno.

Fabio: come dice Brunori, no? Vedi, passiamo da Fabri Fibra a Brunori in un attimo.

Matteo: no comunque in realtà… non lo so, infatti vedi abbiamo fatto un pezzo per capirlo. 

Ma se doveste ricondurla ad un oggetto, ad una persona o un’esperienza…? 

Federico: aiuto, non lo so.

Matteo: beh questo disco non è nato come una cosa felice.

Perché?

Matteo: perché quando vuoi essere indipendente devi anche addossarti un sacco di sacrifici e di costi, quindi non sai come fare… puoi davvero ritrovarti a fare un concerto e basta e a dover dire: ciao a tutti è stato bello, abbiamo buttato quattro anni per niente. Tutte le nostre vite sono qua.

Per quattro anni vi siete concentrati solo su questo? 

Matteo: beh non proprio, alla fine era sempre una cosa con un piede dentro e un piede fuori. Però se non ti ci dedichi veramente non vai da nessuna parte. Scrivere canzoni non è semplice. Non è che se stai lavorando e ti viene in mente qualcosa dici “ciao ragazzi io devo andare a scrivere”, non è così. Tu fai quello, poi investi su te stesso. Fare un disco oggi non è una cosa da poco. Dietro c’è un lavoro di anni. Questo è il frutto di un percorso fatto insieme ogni giorno. Sono anni che noi ci vediamo tutti i giorni.

Ormai siete come fratelli.

Matteo: praticamente si.

E potendo scegliere chiunque al di fuori della vostra famiglia, con chi vorreste collaborare?  

Fabio: io la so! Me lo avevi detto un giorno.

Matteo: Guarda sicuramente un italiano. Davvero te l’ho detto?

Fabio: eh si.

Matteo: ah già! Beh sicuramente metto in primo piano Baustelle, Cesare Cremonini e Brunori. Questione di gusti! Con questi tre lavoreremmo davvero bene insieme.

Di Cesare Cremonini cosa apprezzate? Essendo bolognesi come lui, siamo cuoriose. 

Matteo: noi siamo cresciuti con Cremonini. Ne apprezziamo la bravura che è una cosa davvero oggettiva. È questo. Poi non c’è una ragazza che non lo ami oh, dicono tutte “se dovessi sposarmi mi sposerei con Cesare Cremonini” è incredibile! È bravo. Ogni volta che esce un suo disco spacca il culo a tutti. Quando è uscito Logico sono andati tutti a casa. E con il prossimo sarà uguale, manderà tutti a casa, ancora! Quindi lo aspettiamo.

Di artisti stranieri? 

Federico: mah, poco o nulla.

Fabio: non c’è niente di nuovo.

Matteo: quando sono usciti i Kooks sono impazziti tutti, giustamente, ma ora quella roba là non c’è più. Non so ci piacciono o Catfish, i Kasabian…ma ora in Italia troviamo molta più casa. Ce ne accorgiamo da quello che ascoltiamo mentre andiamo ai concerti. Ora stiamo in fissa con Giorgio Poi, e stiamo ascoltando molto anche i Cambogia, è uscito da poco il loro disco e ci piace molto.

Per quanto riguarda i live, che ora stanno avendo un grande successo, ci è capitato di vedere un video del vostro concerto di qualche giorno fa a Pavia. Gente sul palco, gente sotto al palco… come lo sentite il rapporto con il pubblico?  

Matteo: lo sentiamo moltissimo, lo avremmo fatto anche stasera ma non c’era il palco! Alla fine il concerto cos’è se non il momento per dire: abbiamo fatto queste cose qua, vi piacciono? Se ti piacciono, canti e vai a casa si, va bene, ma è ridursi a fare il compitino… deve essere un momento di condivisione, deve diventare una cosa unica.

Uno stage diving prima o poi ce lo dobbiamo aspettare allora?

Matteo: ecco forse su quello siamo un po’ più fighetti. Io non lo farei, però Fabio si… (ridono). Chissà, vedremo!

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A cura di Giorgia Salerno 

Foto di Giorgia Ravaioli 

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CANOVA

Nobody Cried For Dinosaurs: le camicie hawaiane, le chitarrine e le cose per cui vale la pena emozionarsi davvero (a parte i dinosauri). 

Intervistare i Nobody Cried For Dinosaurs, aka NCFD, aka Federico Cavaglià e Gabriele Gastaldin, è stato incredibilmente divertente e sorprendentemente facile. Divertente  perché, come potrete immaginare da quel che producono, dal loro stile vacanziero e dalle grafiche esplosive del progetto artistico che portano avanti da cinque anni, sono (quasi) completamente fuori di testa; facile perché sostanzialmente posseggono una segreta vocazione da showmen, stile Festivalbar del 1993, anno scelto per essere autoreferenziale (sì) e citare Fiorello che lo condusse ai tempi con la stessa nonchalance dei due milanesi. Si presentano, ridono e scherzano, rispondono alle domande e se le pongono tra di loro condendo il tutto con anneddoti comici e momenti di altissimo romanticismo (ma proprio altissimo, scottanti dichiarazioni vi attendono). Li abbiamo incontrati all’Arterìa di Bologna durante una tappa del loro (incredibile) tour. Questo è quanto.

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Federico: noi siamo i Nobody Cried For Dinosaurs… e fin qui tutto bene! Nella fattispecie siamo Federico e Gabriele, abbiamo fondato il gruppo ormai cinque anni fa, abbiamo all’attivo due EP, siamo molto simpatici, ci piace la musica con le chitarrine, le Hawaii e…

Gabriele: …la fantascienza!

Fantastico! Perché vi siete dati questo nome?

Federico: ecco una domanda che non ci fa mai nessuno! (Ride).

Lo so, lo so, prometto che le altre saranno più originali, ma ci serve assolutamente saperlo.

Gabriele: a questa domanda rispondiamo sempre dicendo una cosa sola. Perché è la verità, nessuno pianse per i dinosauri.

Federico: E alla fine se ci pensi c’è una certa ipocrisia… Il panda si sta per estinguere ed è subito “oh mio Dio, è un disastro!”. Ci sono un sacco di iniziative di ogni tipo, come quella per salvare le balene ma… i dinosauri? Se non si fossero estinti la razza umana non si sarebbe affermata come razza dominante e quindi… Doveva succedere! Però questo usare due pesi e due misure non ci piace!

Gabriele: E quindi siamo qua!

Questa domanda mi serviva per arrivare al punto, ovvero, nessuno ha pianto per i dinosauri, è un dato di fatto, ma allora quali sono le cose per cui vale la pena piangere ed emozionarsi, secondo voi?

Federico: beh, sicuramente i dinosauri! (Ride). No, a parte gli scherzi, bella domanda… io ho qualche risposta. Direi… piangere di frustrazione e commozione per Neon Genesis Evangelion (serie televisiva anime del 1995 creata dallo studio Gainax, sceneggiata e diretta da Hideaki Anno, ndr), di sicuro… un po’ ti scoccia ma alla fine ti seduce! E tu Gabri per cosa piangi nella vita?

Gabriele: ho pianto guardando Brokeback Mountain!

Federico: è vero. A noi piace molto l’amore.

Gabriele: siamo eterosessuali però! Comunque si, devo ammetterlo, io ho pianto e mi sono emozionato.

Federico: siamo gay-friendly. L’amore non ha sessualità e poi, si, dai, quel film è tristissimo.

Gabriele: io ti amo Federico.

Federico: anche io.

Dichiarazioni in diretta! Bellissimo.

Federico: per avere una band farla andare avanti bisogna volersi davvero bene altrimenti si sbrocca… e noi ci vogliamo molto bene, fortunatamente.

E vi capita mai di sbroccare e litigare?

Federico: in realtà poco!

Gabriele: ci siamo assestati nei cinque anni che abbiamo passato insieme, però abbiamo fatto in tempo anche a litigare a volte.

Federico: si c’è stato qualche litigio però raro… e comunque tutte le discussioni alla fine si sono sempre risolte.

Gabriele: non ci siamo mai picchiati!

La peggior litigata che avete avuto?

Gabriele: in realtà non era particolarmente accesa, però c’era l’odio, capito come? Era il periodo in cui facevano molta fatica a scrivere e quindi eravamo nervosi e ci odiavamo silenziosamente.

Federico: A volte ci capitano dei momenti di blocco nel progetto… non momenti di blocco creativo, però sai, tra lavoro e altre cose che si mettono di mezzo, è difficile. Diciamo che più si tiene alle cose e più ci si innervosisce. Il motivo è che ci tieni tanto alla band e in fondo vorresti che fosse tutto più facile, a volte… però litigi veri e grossi no, mai, non me ne vengono in mente. Siamo bravi, alla fine!

Parlando dei live e di come siete sul palcoscenico, abbiamo notato che siete sempre molto curati: avete uno stile molto particolare, dalle camicie a fiori al capello pettinato…

Gabriele: (ride) mah! Del capello pettinato dubito fortemente perché sudo copiosamente

Federico: farò una domanda bonus. Gabriele, quand’è l’ultima volta che sei stato da un parrucchiere?

Gabriele: forse proprio cinque anni fa. È vero, mi tagli capelli da solo da cinque anni.

Federico: E i nostri fan interessa, quindi per favore questo segnatelo! (Risate).

…beh insomma dietro a tutto ciò c’è uno stylist o fate tutto voi? Vi ispirate a qualcuno o qualcosa di particolare?

Gabriele: lo stylist non ce l’abbiamo di sicuro! A livello visivo proviene da riferimenti a cui siamo molto legati come ad esempio i film di fantascienza anni ‘80 e i videogiochi. Noi siamo appena antecedenti all’era digitale dei social, quindi i videogiochi per noi hanno avuto un’importanza fondamentale. Forse siamo stati l’ultima generazione a vivere i videogiochi come era dall’inizio e quindi proviamo, con i colori accesi e il nostro stile, a ricreare quell’immaginario.

Federico: ma c’è anche una motivazione pratica. I NCFD, essendo un collettivo, pieno di amici, in cui io e Gabriele scriviamo i pezzi, conta molte persone. Tra l’altro, piccola parentesi, questa sera esordisce il diciassettesimo membro in cinque anni che è il buon Bobbi Checchi (Roberto Checchi, tastierista, ndr), stasera è al suo primo live nella vita! Comunque, dicevo, essendo i componenti della band variabili durante i live (gli unici fissi siamo io e Gabri), abbiamo pensato di darci un dress code per essere sempre riconoscibili… così quando senti la musica e vedi le camicie dici: ah! Sono i Nobody! Anche se poi di fatto i componenti variano.

La vostra formazione sul palco varia davvero spesso!

Federico: si, gli arrangiamenti sono molto simili poi cambiano un po’ da musicista musicista però di base dal vivo siamo in due chitarre, basso, batteria e tastiera. A volte capitano orario eccezioni per esempio adesso con Bobbi abbiamo alcuni pezzi che abbiamo arrangiato nuovamente con anche l’acustica. Tendenzialmente dal vivo c’è sempre la solita formazione, cambiano gli strumentisti.

Ci saranno novità prossimamente? Inserirete qualcosa (o qualcuno) di nuovo?

Federico: stiamo lavorando ad alcune cose per i pezzi nuovi, ci saranno delle percussioni aggiuntive però per ora è tutto in via di definizione!

Se poteste scegliere qualcuno con cui con lavorare, all’interno del panorama musicale italiano e internazionale, chi chiamereste?

Gabriele: dici come musicista?

Scegliete voi, prima parlavamo di styling quindi potete sbizzarrirvi e scegliere anche altri tipi di collaborazione, non per forza musicisti! 

Federico: non lo so, è una bella domanda, che dici Gabri ti viene in mente qualcosa?

Gabriele: non di intelligente! Non lo so… ah! Ce l’ho. Una volta abbiamo rischiato di aprire un concerto di Cristina D’avena. Ok? Ed era il mio sogno, ero la persona più felice del mondo poi però purtroppo quest’occasione è sfumata ed io mi sono rattristato molto… però sarebbe il sogno della mia vita!

Facciamo un appello!

Gabriele: Cristina, voglio suonare con te.

Federico, sei d’accordo? 

Federico: (ride). Non lo so. Io a questo punto vorrei Myss Keta. Farei un pezzo po’ africano, tipo Le ragazze di porta Venezia (brano di Myss Keta, ndr) con noi NCFD come backing band (lessico professionale alert = band di supporto, ndr), sarebbe una bomba! A me piacerebbe.

Beh a questo punto tutti quanti insieme, no? (Risate).

Gabriele: eh!

Federico: no! Ecco forse il primo grande litigio lo hai creato tu!

No, per carità! O meglio, se volete litigare fatelo quando veniamo a trovarvi a Milano in sala prove, così riprendiamo tutto.

Gabriele: promesso!

Usate Shazam o qualcosa di simile? Vorremo vedere le vostre ultime ricerche musicali, così, in modo estemporaneo!

Gabriele: usiamo Soundhound.

Federico: cazzo ma sono domande stranissime! Aiuto. Comunque ecco il mio. Ho shazammato un pezzo dei Tops, una band che a me piace un sacco. L’ho sentito in radio: si chiama Hollow sound of the morning chimes. Non lo conoscevo, non è nel loro primo disco! Poi ho Daniel di Twin Sister, che non ho idea di cosa sia e poi… Getaway dei Blossoms.

Gabriele: io ho New Soul di Vox Angeli, mai sentiti! Gli American Football con Never Meant e John Monkman con Kiss Me.

Quali sono le vostre influenze musicali?

Gabriele: beh noi ci siamo beccati in pieno l’indie anni zero e quindi direi principalmente quello.

Federico: tipo Tokyo Police Club, Metronomy…

Gabriele: anche i Vampire Weekend…

Federico: …e gli Strokes ovviamente!

Ultimissima domanda: quali consigli dareste ad un ragazzo che vorrebbe fare il musicista in una band? 

Federico: vincete la lotteria o siete ricchi di famiglia!

Gabriele: …cosa che noi non abbiamo ancora fatto!

Federico: no dai, un consiglio sensato realtà ce l’ho: buttatevi e fatelo, se ci tenete a farlo davvero fatelo, di qualunque tipo siano i vostri limiti tecnici.

Gabriele: noi lo facciamo davvero per divertimento e basta… sicuramente non per camparci!

Per campare allora cosa fate?

Gabriele: io faccio il graphic designer.

Federico: io invece mi sono appena laureato, la SAE, una scuola per tecnici del suono… chissà cosa ne sarà di me!

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A cura di Giorgia Salerno

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NCFD

Non solo musica: Willie Peyote racconta com’è saper raccontare, senza filtri e senza censure. Dall’educazione sabauda all’immigrazione, passando per le piccole cose quotidiane.

Stasera, prima della sua esibizione al Covo Club di Bologna, incontro Willie Peyote, nome d’arte di Gugliemo Bruno, classe ’85, torinese DOC. Premetto che sarà una lettura lunga quanto interessante: si parla di tante cose, non solo di musica, non solo di Educazione Sabauda, non solo dell’emozione che precede quello che sarà un concerto sold out incredibilmente partecipato dal pubblico bolognese. Si è tolto il cappello, si è seduto ed è stato solo (o quasi) Guglielmo: la sua vita ondeggia tra il mestiere del musicista, Torino, il tour, il lavoro al prossimo (nuovo!) progetto e la voglia di raccontare le cose, tante cose, dalle proprie storie a quelle delle persone che lo circondano fino a quelle dei migranti di Lampedusa. Fatti raccontati così come stanno, senza filtri, senza abbellimenti e senza censure… e, in fondo, senza il timore di infervorarsi, di apparire troppo preso dall’argomento, schiaffandoci una parolaccia di tanto in tanto, perché quando ci vuole, ci vuole.

 

Com’è per te essere qui, questa sera, al Covo Club? E più in generale, che rapporto hai con Bologna? 

Guglielmo: per me, come ti dicevo anche prima, è una soddisfazione essere qua perché mi hanno fatto notare di essere il primo rappresentante del rap italiano a suonare qui al Covo… ed è anche una responsabilità, spero di gestirla al meglio! Con Bologna ho un bel rapporto, negli anni ho costruito molti rapporti umani qui, vengo sempre volentieri anche non dovendo suonare, a trovare amici ed amiche… suonarci è più complicato, però noto che va sempre bene a livello di pubblico, soprattutto quando le cose vengono organizzate dai ragazzi del collettivo (Collettivo HMCF, ndr) che ci trattano sempre bene, e devo dire che c’è sempre una buona risposta quindi a livello di pubblico non mi posso lamentare! Ci sono poi un po’ di cose più scomode… Però insomma devo dire che mi piace venire a suonare a Bologna, c’è un legame abbastanza forte, apprezzo la mentalità e la gente del posto.

E a proposito di apprezzamenti, facendo qualche ricerca ho letto alcuni commenti ai tuoi lavori. Un ragazzo scrive, a proposito del pezzo Che bella giornata: “la prima canzone che ho imparato veramente a memoria”. Un altro scrive: “la tua musica è pazzesca, altro che rapper, sei un poeta”. Come prendi questi complimenti? Questo genere di cose personalmente ti imbarazza?

Guglielmo: come artista no, come persona sì! Io sono molto sabaudo anche in questo, nella gestione delle emozioni e nell’esternazione delle stesse, quindi no, in realtà non gestisco bene i complimenti come essere umano, mi mettono sempre in difficoltà… in senso buono eh! Cerco di non fare troppo caso né alle critiche, quelle gratuite, né ai complimenti, quelli eccessivi. Faccio una scrematura: prendo le critiche che hanno senso, gli eccessi li tolgo. Sicuramente fa piacere, non tanto gli attestati di stima che sono necessari perché altrimenti, se non ci fossero, vorrebbe dire che la mia musica non si diffonde, quanto per alcune cose significative, per esempio c’è gente che mi dice: io mi sono licenziato dopo aver ascoltato Che bella giornata, mi hai fatto capire che anche per me era un momento complicato, eccetera… Insomma è anche la responsabilità che ho in quello che scrivo… mi piace avere la percezione di essere ascoltato in un modo vero.

Insomma influenzi veramente delle persone?

Guglielmo: in qualche modo sì, ma più che influenzare gli faccio muovere il cervello. Il mio obiettivo è sviluppare un pensiero critico degli altri, non voglio dare lezioni di nessun genere, anzi non mi piacciono quelli che danno lezioni: io sono il primo a sbagliare quindi parlo dei miei errori e non di come gli altri dovrebbero agire meglio.

Spesso mi dicono “tu hai un pubblico adulto – fai conto, in media sui venticinque anni – perché fai roba difficile”. Probabilmente è così, ma questo al tempo stesso mi mette in una posizione per la quale la gente mi ascolta davvero e fa attenzione a quello che dico, che per me, che faccio così attenzione a quello che scrivo, è fondamentale, mentre in altri contesti non darebbero così tanto peso a tutto quello che c’è dietro ad una singola frase. Meglio pochi ma attenti che tanti disattenti. Certo, vorrei tanti attenti e riuscire a parlare a gente che non è abituata ad ascoltare quello che faccio io… insomma vorrei fare quello che fa Silvestri, ecco, per dire una stronzata! (Ride) nel mio piccolo, s’intende.  

E qual è la differenza tra Willie Peyote e Guglielmo Bruno? La differenza come anche l’affinità, se c’è.

Guglielmo: ma sai, la vita mi ha portato ad avere la fortuna di poter creare un alter ego che può fare quello che io vorrei fare sempre. Nella vita non puoi essere così misantropo e tranchant su tutto quello che dici… i rapporti umani sono dei compromessi. Willie Peyote può permettersi di non scendere mai a compromessi, porta all’eccesso alcuni aspetti di me. Nasce da me ma è come se fosse il pupazzo di un ventriloquo… cioè, sono io, non è che ho uno sdoppiamento di personalità! Però ho la possibilità di far parlare un altro a nome mio. Guglielmo non è identico a Willie Peyote… per quanto io sia una persona polemica, che litiga con tutti nella quotidianità… ma davvero eh! Sono quello che rovina le cene perché si mette a litigare! (Ride).

Ma come?! Perché?

Guglielmo: mah così! Non lo so, mi metto a litigare! Tendenzialmente sono uno che discute in un modo che gli altri percepiscono male, quindi alzo la voce e divento rosso in volto anche se non mi arrabbio e la gente la prende male… Con Willie Peyote in realtà ho preso delle cose di me e le ho portate all’eccesso, così mi sfogo anche un po’ e poi, nella vita di tutti i giorni, posso stare più tranquillo! (Ride). Sono due facce della stessa medaglia, tutto lì.

A proposito di Che bella giornata, come è la tua giornata ideale?

Guglielmo: beh quella che racconto nel brano fu una bella giornata! Per il resto… sai che non lo so? Una bella giornata è stata quando sono andato a Bilbao a vedere il Toro e ho fatto 1300 chilometri ad andare e 1300 a tornare, ho preso un sacco di acqua perché ha piovuto tutto il tempo, ero distrutto ma il Toro ha vinto in uno stadio come il San Mames e si, quella è stata una bella giornata! Ma basta anche meno…

Le piccole cose?  

Guglielmo: si, si, sono uno che si infogna con le piccole cose! Mi ricordo di una volta che ero con la ragazza di cui parlo in tutti i pezzi, quella che appunto se ne è andata nel brano Che bella giornata… eravamo insieme a Genova e io in quel periodo associavo lei ad una canzone di Coltrane, My favourite things. Ogni volta che sentivo questo pezzo pensavo a lei. Un giorno andiamo a Genova e tornando dal mare, passando dal porto, casualmente arriva una tizia che tira fuori il flauto e inizia suonare proprio questa canzone. Allora ho pensato: dai! Non può essere un caso, dai!

E invece era un caso, è andata male… come sempre del resto! Comunque si, queste piccole epifanie mi rendono le giornate belle, come quando il tergicristallo va tempo col pezzo che sto ascoltando. Se succede una cosa del genere quella è una bella giornata, piccole cose che in qualche modo mi rapiscono in quell’istante e la rendono speciale.

Ho guardato e apprezzato molto “A sud di nessun nord” il tuo documentario che parla degli immigrati a Lampedusa (link in fondo all’articolo, ndr): come ti è venuta l’idea di andare oltre al brano Io non sono razzista ma… e girare un documentario sull’argomento?

Guglielmo: mah, l’idea è nata per caso, mentre pensavamo a come e dove girare il video di Io non sono razzista ma… che riteniamo essere uno dei pezzi migliori del disco nel suo complesso (un po’ per l’argomento, un po’ per come arriva alla gente). Volevamo fare una bella cosa e abbiamo pensato: visto che nel brano viene citata la città di Lampedusa, perché non chiedere il patrocinio del Comune per andare a girarlo proprio lì? Io ed il videomaker, Stefano, siamo due persone molto curiose… quindi dato che stavamo andando a Lampedusa, abbiamo pensato che sarebbe stato figo fare qualcosa in più. Volevamo vedere come era davvero la situazione, visto che l’abbiamo sentita raccontare in tanti modi diversi in base un po’ all’umore politico del momento, che cambia sempre: prima è l’isola dell’emergenza, poi l’isola dell’accoglienza… cambia da come cazzo vogliono raccontarcela, e quindi ci siamo detti: andiamo sul posto e vediamo com’è. Volevamo mettere insieme voci diverse che raccontassero punti di vista quantomeno similari sulla situazione. Con noi si sono confrontate molte persone! C’è un albergatore, nato proprio su una spiaggia nel ’63; ci sono dei ragazzi, nati fuori Lampedusa, perché lì non c’è più l’ospedale, che vivono fuori ma sono lampedusani; poi c’è un ragazzo che è attivo sul territorio con l’associazione Askavusa.

Come noi percepiamo Lampedusa è un esempio di quanto siamo disattenti. Uno a Lampedusa non ci va neanche più in vacanza perché pensa che sia un posto pieno di immigrati quando in realtà non è solo questo. A parte che loro sono tranquillissimi, e poi è un posto splendido. Ci occupiamo di Lampedusa solo quando succede qualcosa, mentre per tutto il resto del tempo quest’isola è qualcosa di staccato dall’Italia, di cui non frega un cazzo a nessuno. Volevo prendere Lampedusa come esempio per far vedere quanto in realtà siamo tutti schiavi di questa informazione che ci fa credere un po’ quello che vuole. Siamo tutti vittime di questa cosa, anche chi è attento alla contro-informazione, non segue i telegiornali eccetera… anche queste persone hanno un’idea di Lampedusa che non è quella reale.

Sicuramente tutto questo avviene anche a causa dei social network: la facilità con cui circolano opinioni ed informazioni purtroppo aiuta ad avere un’immagine distorta delle cose…   

Guglielmo: distorta, si, ed è proprio contro questa distorsione dei fatti che abbiamo lavorato. Stefano mi racconta sempre di quando, l’anno prima che girassimo il video, è andato sul confine ungherese, nel periodo in cui c’erano gli arrivi di profughi siriani e non solo, dalla rotta balcanica. Ha incontrato un giornalista che da sempre è corrispondente dalle zone di guerra e gli ha chiesto: ma chi te lo fa fare? Perché hai scelto di rischiare quotidianamente la tua vita per questo lavoro? E lui gli ha risposto: io sono convinto che le cose per capirle bisogna vederle dal vivo. Ed è la stessa idea che pensiamo noi. Abbiamo voluto semplicemente andare a vedere come stanno le cose davvero, perché secondo me se non le vedi non lo sai e basta.

Questo argomento mi ha colpito molto, purtroppo questo non capita solo a Lampedusa ma anche in tante altre località italiane, mi viene in mente lo sbarco delle popolazioni curde in Calabria a cui io stessa ho assistito qualche anno fa. Vedendo le cose con i propri occhi, come hai fatto tu, ci si rende conto anche dell’umanità degli abitanti del posto, che al contrario di quanto si possa pensare non si fanno problemi ad ospitare gli immigrati e a dargli una mano…  

Guglielmo: si, una situazione simile a questa. C’è una scena, nel documentario, in cui mentre intervistiamo i ragazzi migranti, alcuni lampedusani gli lanciano dei vestiti dal balcone per aiutarli in qualche modo, ed è lì che vedi  la vicinanza umana. Al tempo stesso però anche a Lampedusa la gente, come tutti i posti in Italia oggi, vede l’immigrato male… O meglio è visto male dalla pancia del paese. Sul pullman mi sono reso conto di una cosa assurda: se un tempo l’argomento di conversazione per attaccare bottone era il tempo, il clima, ora no, si parla di immigrati. È un argomento veramente abusato.  

La popolazione di Lampedusa si è sentita in qualche modo sopraffatta da questa situazione: quando sei in un posto che non si caga nessuno, di 6000 abitanti, che viene considerato solo quando arriva qualcun altro, allora pensi: ci cagano soltanto perché ci sono loro? E allora ci incazziamo con loro. È la classica guerra tra poveri.

Tornando al documentario, senza nulla togliere ad un lavoro come Fuocoammare (docufilm su Lampedusa di Gianfranco Rosi, 2016, ndr), che è molto ben fatto, però secondo me non coglie esattamente il punto. È un bel lavoro di facciata, infatti serviva per dare un’ulteriore immagine positiva… perché oggi all’Italia e all’Europa serve raccontare Lampedusa come un posto in cui va sempre tutto bene. Un bellissimo lavoro, fatto molto bene, senza dubbio, ma noi volevamo fare una cosa diversa.

Meno filtrata? 

Guglielmo: si, esatto e anche molto meno poetica… che poi è quello che cerco di fare anche nella musica. Cerco sempre di essere il più prosaico possibile, per quanto poi ci metta figure retoriche, rime e balle varie… Però cerco di essere più diretto possibile. Spesso mi viene chiesto: come fai a parlare di certe cose? In realtà io non è che faccia roba tanto diversa da quello che fanno gli altri. Il tema del razzismo è un tema che nel rap, e nella musica in generale, è sempre stato trattato, così come il lavoro, così come tanti altri temi… È solo che probabilmente rispetto agli altri io cerco e, a tratti forse riesco, a risultare più diretto. Quando mi esibisco sembra che faccia un discorso. Mentre gli altri probabilmente sono più incastrati in logiche di, cazzo ne so… esigenze poetiche, mettiamola così.

A proposito degli altri, cosa ne pensi dello scenario trap attuale? Mi riferisco ad artisti come Sfera Ebbasta, Ghali…

Guglielmo: (ride). Ultimamente me lo chiedono in tanti! Partendo dal presupposto che, come tutti dischi che escono, io li ascolto e cerco di studiarmeli, come tutto quello che funziona cerco di capire perché funziona, qualunque cosa sia, anche quello che non mi piace. In realtà credo di non essere troppo sul pezzo, non la capisco tanto bene, non ho gli stessi riferimenti forse… Non lo so. Ho un’idea su chi secondo me sa quello che sta facendo e su chi invece cazzeggia e segue un trend. Ghali e Sfera Ebbasta sono due artisti che sanno quello che stanno facendo, Ghali in particolare, secondo me. Ci sono altri esempi di gente che in realtà, non so come dire… è come se la trap gli avesse regalato una scusa per essere considerati… è come se questo genere musicale gli avesse dato diritto di cittadinanza, quando in realtà non avrebbero nessuna velleità artistica, di nessun genere; ad oggi la trap, come il rap qualche anno fa, è molto facile da fare quindi da’ possibilità a tutti di fare musica. Io non sono così democratico: ritengo che la musica debba essere accessibile a tutti, ma non tutti possono o devono fare musica. Come diceva Bukowski: vuoi fare lo scrittore? Non ce n’è bisogno, smettila. Se non hai davvero bisogno di farlo, non farlo. Non voglio impedire agli altri di fare musica, sia chiaro, è che molto spesso quando scorro la home di Facebook e vedo che escono trenta video al giorno, mi chiedo: ma che bisogno c’è che io mi butti nel coro a fare tutto questo rumore di fondo in cui, fondamentalmente, alla fine, non si capisce un cazzo?

Io per primo mi pongo questo problema, però so anche che lo faccio perché non riuscirei a fare nient’altro. Morirei se non facessi musica. Insomma, tutti quelli che la fanno dovrebbero farla solo se hanno questa necessità impellente, quasi fisica… mentre in moltissimi, soprattutto nell’ondata trap di adesso, noto la voglia di arrivare a fare del grano. Si fa il rapper come prima si cercava di fare il calciatore. Ma poi alla fine quelli che arrivano sono sempre quelli a cui piace davvero il calcio, capisci?

Alla fine è così in tutti i settori, no? Vince sempre chi ci mette passione perché è quello che spera di fare nella vita.

Guglielmo: ma si, assolutamente. Poi alla fine se ce la fai, fai comunque la vita del musicista eh! Fortunato, sì, perché fai quello che ti piace davvero, ma non tutti hanno la mentalità per farlo… Devi ragionare sul fatto che per vent’anni, trent’anni della tua vita tu lavori solo ed esclusivamente per quello e tutti i giorni della tua vita penserai a quello. Mangi, dormi, non bevi, non fumi, non fai certe cose perché hai un obiettivo… Non tutti siamo in grado di fare questa cosa. Bisogna avere costanza nella vita ed è molto più difficile di quello che sembra, fare il musicista. È un lavoro a tutti gli effetti, quando lo fai come mestiere.

Cosa ascolti ultimamente?

Guglielmo: ultimamente ascolto quasi esclusivamente il disco di Anderson Paak. Ascolto tanto perché studio e cerco sempre di tenermi aggiornato. Per mio gusto personale ho ascoltato il disco di Silvestri. Poi, si, qualche disco indie italiano… Mainstream (di Calcutta, ndr) l’ho ascoltato, così come La fine dei vent’anni (di Francesco Motta, ndr).

Ti sono piaciuti?

Guglielmo: si, si. Qualcosa di più, qualcosa di meno… ma sono molto bravi. Tra i due devo dire che ho preferito Mainstream. Anche I Cani mi piacciono, lui (Niccoló Contessa, cantante e autore dei brani de I Cani, ndr) scrive da Dio. È proprio bravo, è e sarà un ottimo autore. Devo dire che sono un ascoltatore molto particolare, ho gusti molto difficili.

Se potessi scegliere una collaborazione nuova all’interno di tutto il panorama musicale, sia italiano che internazionale, chi sarebbe?

Guglielmo: Anderson Paak, tutta la vita! In Italia direi Silvestri o Pierpaolo Capovilla.

E, per finire, quali sono i prossimi progetti? Cosa ci dobbiamo aspettare dal 2017? 

Guglielmo: (ride) come direbbe un rapper qualsiasi, il 2017 sarà il mio anno! No, dai, a parte gli scherzi stiamo lavorando al disco nuovo che sarà diverso, un ulteriore passo avanti nel percorso che abbiamo in testa io, Frank Sativa e tutti quelli che collaborano. Ci sono molte cose in cantiere anche perché non potrei fare altrimenti: quando è uscito Educazione Sabauda mi aveva già rotto i coglioni! Sui dischi ci lavori davvero per una vita, poi mettici che ora è da un anno che lo porto in giro quindi si, ho la necessità fisica di fare roba nuova!

Allora ci vediamo in studio?  

Guglielmo: certo, così vedrete quanto male lavoriamo!

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DOCUFILM “A sud di nessun nord” disponibile su YouTube >> https://youtu.be/NkI9QMUm63E

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Foto e articolo di Giorgia Salerno 

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WILLIE PEYOTE

L’ultimo dei romantici si chiama Giorgio Poi (e pensa a Bologna)

GIORGIO POI

Cosa non è stato detto ancora su Giorgio Poi? Come rendere questo articolo interessante e come fare in modo da non farti saltare l’introduzione, che è quella su cui è più difficile concentrarsi, perché non ho la voce dell’artista intervistato a guidarmi? Nessun suggerimento, solo il foglio bianco che mi guarda e Niente di strano in sottofondo.
Ricordo ancora quando è uscita questa canzone, il primo singolo estratto dall’album Fa Niente (uscito per Bomba Dischi, fucina romana di prodezze quali Calcutta e Pop X), e la mia reazione fu lapidaria: non so, non mi dice, non capisco, no. Non sono neanche arrivata alla fine ma giusto poco prima, l’ho stoppata, lo ammetto.
Qualche giorno dopo mi martellava in testa. Hai detto prendo tutto e vado via. Una melodia, un’immagine, ci ripensavo, dovevo riascoltarla.
Play.
Ed era tutto lì, così limpido e chiaro, andava solo capito. Completamente fuori dagli schemi, nessun ritornello scontato e buttato fuori quattro, cinque volte, al quale le mie stanche orecchie italiane potessero abituarsi per canticchiare passivamente, no.
Giorgio Poi è tutto da capire, ti racconta una storia nuova, qualcosa che forse non hai mai sentito e che, probabilmente, all’inizio non capirai. Ma solo all’inizio.
Lo sentirai quando lo avrai ascoltato davvero, perché ti ci riconoscerai come in uno specchio (uno di quelli vecchi e grandi, con qualche macchia del tempo sulla superficie).
Elementi semplicissimi legati indissolubilmente ad atmosfere sognanti e contorte. La cosa assurda è che tutta questa novità, tutto questo fresco sentire, lui lo ricava dalle cose di tutti i giorni: la felpa blu e le scarpe da ginnastica, il vino, il bar, la metropolitana, un cappotto nuovo, un amore strano.
Un disco che è davvero un tuffo dal cuore alla pancia – mi guardi e ti sbucci un’arancia. Mi viene da ridere, ho ripetuto così tante volte questa frase ad alta voce che mia madre la completa senza sapere di cosa io stia parlando: pensa che sia uno scherzo, una filastrocca.
In effetti forse è questo il modo in cui va presa la vita, con leggerezza, così come si raccontano le filastrocche, come vivi un concerto o come canti le canzoni in macchina. Che ti piaccia o no, che ti convinca o meno, che ti faccia piangere o ballare, è la vita, e tutto passa. Fa niente.

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Come stai?
Giorgio:
bene, voi?

Mah, bene dai, c’è un po’ di agitazione…
Giorgio:
Sei agitata?

Eh si ogni tanto ho un po’ di ansietta.
Giorgio:
Per cosa?

Per la vita!
Giorgio:
 Sai anche io ho l’ansia adesso, devo suonare! (Risate)

Tra l’altro oggi per Bologna è una giornata importantissima.
Giorgio:
 eh si è il compleanno di Lucio Dalla.

Hai fatto subito il collegamento quando ti hanno detto che avresti dovuto suonare qui il 4 marzo?
Giorgio
: no, l’ho fatto qualche giorno fa!
È uno degli artisti a cui ti ispiri, giusto?
Giorgio:
 si, si assolutamente, mi piace un sacco Lucio Dalla. Ho pensato: fichissimo, andrò a suonare nella sua città nel giorno del suo compleanno!
Insieme a lui quasi, perché le strade sono inondate dalla sua musica in questi giorni.
Giorgio:
 si, si. So che c’è la sua musica in diffusione… oggi suoniamo insieme!

 

A Bologna c’eri già stato?
Giorgio:
 si di passaggio si, ma in realtà la conosco pochissimo… anche se ci sto venendo a vivere, mi sa.
Dai, anche tu qui? Davvero?
Giorgio
: mi sa di sì (ride). Comunque un giro ce l’avevo fatto, anche perché sono venuto qui a mixare il disco, all’Alpha Dept con Andrea Suriani. Sono rimasto una decina di giorni, ma essendo un lavoro con ritmi un po’ serrati, la mattina dovevamo essere abbastanza freschi e non me la sono vissuta appieno. Non ho girato tanto, non ho avuto occasione!
Come mai questa decisione?
Giorgio: 
perché è una città… beh ho passeggiato un po’ per la città e mi piace molto… esteticamente, per il clima, per l’atmosfera che c’è. Poi è in una posizione centrale, da qui è facile viaggiare in tutta Italia.

Vorremmo chiederti del titolo del tuo album, Fa niente: hai detto che è il tuo motto, usi questa frase come un mantra. Come si sta con questo modo di vivere?
Giorgio:
 io sono una persona molto ansiosa di mio (ride) e quindi è un po’ un invito a me stesso, a non esserlo. A fare quello che mi va di fare senza pensare ad eventuali conseguenze.

Secondo te vivere con questa concezione della vita non rischia di estraniarti molto dalle cose? Di solito uno che dice “fa niente” è una persona a cui tutto scivola addosso, quasi non viene toccata da ciò che le succede.
Giorgio
: io non ho mai detto di riuscirci però, effettivamente! (Ride) mi piacerebbe! Alcune volte cerco di non dare troppo peso a quel che mi succede, a qualcosa che ho fatto, a quello che sto facendo… ad un certo punto io devo dire basta, devo dire ok, se sto scrivendo una canzone devo chiuderla. Devo lasciarmi andare.
Di solito prendi le cose molto di petto?
Giorgio
: si, abbastanza.

Secondo te chi è la persona che ha influenzato di più la stesura di questo disco?
Giorgio
: la persona… mah, forse la mia ragazza. Ci sono molte frasi in questo disco che parlano di lei, di noi.
L’hai conosciuta qui in Italia o fuori?
Giorgio
: l’ho conosciuta a Milano in realtà ma vivevo a Londra e lei è venuta lì. In quel periodo mi stavo trasferendo a Berlino, quindi poi le ho chiesto di venire con me è ci siamo trasferiti lì insieme.

Come hai vissuto tutti questi viaggi e le esperienze lontane dall’Italia? Sei soddisfatto o hai sofferto il cambiare ambiente così spesso?
Giorgio: 
no, sono molto soddisfatto. In realtà ho viaggiato pochissimo nella mia vita: cioè ho vissuto in molti posti ma viaggiando sempre poco. Sono contento di quello che ho fatto e come. Certo, nel momento in cui vai via, sei eccitato per quello che trovi lì, per quello che scopri, ma allo stesso tempo ripensi al tuo paese sotto un altro punto di vista… non è proprio una nostalgia di casa, perché lo trovò un po’ banale, non è che mi mancassero le orecchiette! (Ride) o magari anche si, però non è di quello che parlo!

In questo disco hai unito molti elementi: utilizzi concetti semplici che però racchiudono diversi significati. Abbiamo trovato molti collegamenti con i ricordi e gli oggetti della vita di tutti i giorni, che non solo vengono citati ma ripresi concretamente anche nel video di Tubature, che hai girato in un luogo particolare, giusto?
Giorgio:
 in realtà non è stata una mia proposta quella di girare lì il video, ma un’idea del regista, Francesco Lettieri. Lui conosceva questo luogo magico e lo ha proposto per il video e gli ho detto che mi sembra una bellissima idea, così lo abbiamo realizzato. Il signore proprietario del luogo l’ho conosciuto il giorno stesso in cui abbiamo girato. Siamo stati un po’ a chiacchierare, è un tipo interessantissimo: girava per questo museo, perché alla fine un museo… si aggirava con taccuino e matita, e diceva: “eh! sto cercando di fare l’inventario! Ma, del resto, qui come si fa?! Troppa roba, troppa roba!” (ride). È stata una sensazione particolare strarsene tra tutti quegli oggetti, molto strano. Molto bello. È un museo, quindi si può visitare, gratuitamente. Ha la più grande collezione di ombrelli al mondo! È un luogo dei ricordi.

Quindi possiamo dire che come questo rigattiere colleziona gli oggetti tu sei un collezionista di ricordi?
Giorgio:
 beh si, credo che lo siamo un po’ tutti alla fine, no?
Si, tu in modo esplicito!
Giorgio
: (ride) si, si in questo senso si, io ne parlo.

È difficile esprimersi così apertamente su ciò che si è vissuto?
Giorgio:
 si, a volte si. A volte non trovo le parole per farlo. A volte non trovo neanche la musica… È una ricerca, bisogna scavare un po’ per trovare qualcosa di cui si è soddisfatti, che ti piaccia davvero.

Parlando di azioni comuni, del quotidiano, che alla fine sono quelle che costellano questo disco, quale è secondo te la cosa che fai tutti i giorni che ti ispira di più? Non so, magari lavarti i denti o…
Giorgio:
 si, si, appunto lavarmi i denti! Penso molto quando mi lavo i denti, beh ci hai preso!

Grande! E invece artisticamente parlando chi è la persona che ha influenzato maggiormente il disco secondo te?
Giorgio: forse Lucio Dalla, perché melodicamente è un po’ il mio punto di riferimento.

Quale è la tua canzone preferita di Lucio Dalla?
Giorgio
: La mia canzone preferita… forse… aspetta. Non ti voglio dire una canzone a caso, la prima che mi viene in mente, non voglio veramente dirti cosa mi piace di più!
Facciamo una top 3 di Dalla!
Giorgio
: ok. Allora Il Toro mi piace un sacco. Poi mi piace Futura. E la terza… quella che fa (canta) “muoviti più in fretta di più” ah no quello è il finale di Futura! A posto. La terza è… adesso prendo il telefono e ve la dico. Eccola: Quale Allegria!

Tra l’altro il telefono ci sarà utile perché volevamo chiederti se usi Shazam?
Giorgio
: si, ogni tanto lo uso.
Ci fai vedere le tue ultime tre ricerche con Shazam?
Giorgio
: di solito shazammo canzoni che conosco ma quando non mi viene in mente di chi sono, più che per trovare cose nuove! Allora:
1. Amici miei – Don Powell
2. Acqua e sapone – Stadio
3. Ancora, ancora, ancora – Mina

A proposito di Lucio Dalla, saprai che lui viveva Bologna in modo particolare, stava con le persone con cui non voleva stare nessuno…
Giorgio: 
con gli emarginati, si…
…ecco, tu invece come vivi la città? Hai un modo tuo?

Giorgio: beh dipende dalla città. Bologna l’ho vissuta pochissimo. Londra l’ho vissuta in molti modi diversi, ci ho vissuto sette anni, ho studiato lì al conservatorio. Inizialmente si era andato seguendo una ragazza, i miei spostamenti sono sempre legati a questioni affettive. Sono un romantico! (ride)

Questa è la dimostrazione che ne vale la pena di fare uno spostamento per amore!
Giorgio:
 secondo me si. Poi alla fine quella è la ragione scatenante ma poi dipende anche da dove vai e cosa fai. Ero molto giovane all’epoca, avevo circa vent’anni.

Ora quanti anni hai?
Giorgio:
 trenta.
Sembri molto più giovane!
Giorgio:
 grazie! Comunque si Londra inizialmente l’ho vissuta molto con questa ragazza, uscendo poco, dormendo sempre insieme pur avendo ognuno la sua stanza. Dopodiché ci siamo lasciati ed è iniziata un’altra Londra, più avventurosa, fatta di uscire molto la sera, fare tardi, conoscere tante persone diverse… a Londra poteva capitare spesso di parlare con la gente per strada oppure anche al pub, c’è questa regola non detta per cui al pub si può parlare con chiunque, vai al bancone e ti metti parlare, non c’è nessun problema.
Non come in Italia, ecco.
Giorgio: non come in Italia, si, che è molto più rigida da questo punto di vista.
Sembri un po’ un matto qui se inizi a parlare da solo la bar.
Giorgio: 
si, in realtà a Londra sono molto rigidi, però c’è proprio questa regola, al pub tu puoi parlare con chiunque. Ci puoi andare anche da solo, è molto comune andare nei posti anche da soli… e conosci personaggi incredibili, è splendido. Gente assurda, malmessa! (ride)

Se potessi scegliere, con chi collaboreresti?
Giorgio:
 mi piacerebbe collaborare con Franco Battiato, per provare, così. Nel panorama internazionale invece con Connan Mockasin.

A proposito dei testi, mi ha colpito molto quello di Acqua Minerale, che si usa per mandare giù un po’ di rospi, le cose che non dici. Volevamo sapere, ci sono molte cose nella tua vita che non hai detto?
Giorgio
: no, no, è più piccola la cosa… la canzone parla di un piccolo litigio di coppia e quindi di quanto ogni tanto non c’è bisogno di dire dire che qualcosa ti ha dato fastidio, non c’è bisogno di analizzare troppo e di entrare troppo in certe dinamiche, si può anche sorvolare e mandare giù…
Perché l’altra persona sa già cosa intendi?
Giorgio: 
mah, anche se non lo sa, bisogna saper perdonare le piccole cose. Lasciar correre un po’.

Con il tuo progetto precedente (Vadoinmessico, recentemente rinominati Cairobi, ndr) hai suonato anche all’estero, tra Europa e Stati Uniti hai avuto diverse esperienze. Quali differenze hai trovato tra l’Italia e l’estero?
Giorgio: 
io ho suonato soprattutto in Inghilterra in realtà, dove la situazione è molto vivace perché ci sono un sacco di gruppi, ci sono un sacco di locali… però è quasi troppo, è davvero satura… quindi venivamo trattati così, senza troppi riguardi e senza troppe attenzioni, non ti danno manco la cena, per suonare ti danno circa 50 pounds.
C’è molta competitività?
Giorgio:
 si, beh se non sei tu poi è quello dopo, non gliene frega più di tanto. In Italia invece c’è un po’ più di attenzione, quindi quando si va a suonare. Si è trattato un po’ meglio, si mangia meglio (ride).

Hai riscontrato differenze particolari per quanto riguarda le donne nella musica? Ci sono più musiciste, trattamenti diversi…? Che so, magari spesso di una cantante la prima cosa che si va a guadare è se è bella o meno, mentre di un uomo si chiedono fin da subito informazioni tecniche, che genere fa…
Giorgio: 
mah, ad un trattamento diverso non ci ho fatto caso. Sicuramente ci sono più musiciste donne in Inghilterra, ma perché ci sono più musicisti in generale. Per quanto riguarda le osservazioni, le persone che mi circondano sicuramente non ragionano in questi termini comunque. Poi oh, se una cantante è bella lo dico! Ma anche di un uomo, dico guarda che figo lui (ride). Per come la vedo io, personalmente, la situazione è paritaria, poi il mondo ha un giudizio diverso dal mio, la maggioranza dell’umanità apprezza cose diverse da quelle che apprezzo io, pensa cose diverse da quelle che penso io. Cioè se guardi anche per esempio il video che hanno più visualizzazioni su YouTube, sono cose che io non mi vado neanche a guardare, quindi non mi sento di appartenere a quella maggioranza dell’umanità.

Ultimissima domanda: cosa ti sentiresti di consigliare ai ragazzi che vogliono fare musica?
Giorgio
: è difficile perché io posso parlare solo sulla base della mia esperienza quindi posso dire che… beh innanzitutto avere molta pazienza, molta dedizione e molta passione. Devi essere interessato alla cosa, ti devi divertire a fare quella cosa lì… che in realtà poi se ti diverti, lo fai. Chiunque si diverta a scrivere musica e fare musica è già sulla strada giusta perché è sulla sua strada, farà quello che gli va.

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A cura di Giorgia Salerno

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Foto del live al Covo Club di Bologna di Giorgia Ravaioli 
Polaroid scattata dal (mitico) batterista Francesco Aprili

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Un’avventura nata altrove: la vita che separa, la musica che unisce. La storia degli OAK prima di X Factor.

Gli OAK sono loro: quei quattro strambi che ci sorridono dall’altra parte del parco e si sbracciano sotto quella che sembra proprio essere una quercia: guarda tu le coincidenze, alle volte.

Matteo Fortuni, Fabio Casacci, Gregorio Salce e Ilaria (aka Boba) Ciampolini: il primo si divide tra Londra e Bologna, il secondo e il terzo alternano la chitarra al camice da dottore e la quarta,  studia all’Università. Quattro artisti, quattro matti, quattro amici dei quali conosciamo vizi e segreti, che, ovviamente, vi stiamo per svelare.

Questa la nostra intervista con loro: a Sasso Marconi, proprio vicino casa, a Bologna, prima del tour, prima dei sudatissimi provini, prima di X Factor, prima che Fabione lasciasse la band, prima di quella magica scatola colorata chiamata televisione ecco quel che c’era, e che c’è ancora adesso. La passione per la musica, la voglia di fare tanta strada insieme, i pensieri sputati sulla carta tra una birra e una chitarra, per raccontare la giungla urbana che ci circonda, l’indecisione e l’amore, la solitudine di Londra e… 

Beh insomma, leggetevelo. 

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Chi è Robert John?
Gregorio:
 È qualcuno a cui abbiamo appioppato...

Matteo: …la santità! Come Padre Maronno! 

Gregorio: si… dicevo, dei difetti di noi stessi, oltre che la santità! Lo abbiamo reso la trasfigurazione di alcuni nostri difetti. 

Ilaria: Robert John secondo me è la persona che ha difetti e pregi di una qualsiasi persona normale, non è nessuno di speciale e come tale vive la sua quotidianità in questa giungla urbana. Però ha anche dei pregi, nel senso che pur essendo uno normale è una persona profonda e per niente superficiale, non si ferma alle apparenze.

Matteo: In realtà è un personaggio che abbiamo inventato ad hoc per raccontare una storia di pura finzione, in cui però inseriamo anche elementi reali, di noi stessi. Non è necessariamente qualcuno di noi. È un personaggio tormentato che cerca un modo per… vai Gregorio!

Gregorio: …praticamente la personificazione di una non qualità che l’indecisione, diciamo che è un solido che serve a veicolare l’idea dell’ignavia e, dell’incapacità decisionale e questo solido si chiama Robert John… no scherzo, è mio cugino di New York.

Ilaria: …con cui ho avuto una relazione scabrosa e anche un figlio! (Ride). In realtà Robert John può essere chiunque voglia.

Gregorio: Comunque a parte gli scherzi, Robert John è una figura molto particolare. È dotato di un nome un po’ musicale ma sì, in fondo è una persona normale che fa gli errori che facciamo anche noi e, nel momento in cui cantiamo, diventa il vettore di quegli errori e quindi anche il modo di raccontarli. Nella fattispecie parlo degli errori di indecisione. Robert John è un’indeciso… Ma no, non è innamorato di nessuno!

Matteo: nella canzone c’è una lei… che però ha rotto!

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Le vostre canzoni sono per tutti o vi rivolgete ad un target preciso?

Matteo: grandi, piccini, uomini, donne, cani, piante e gatti. Scriviamo soprattutto musica per gatti.

Volevamo chiedervi inoltre come ve la cavate all’estero? Quanto è difficile per un gruppo italiano trovare date fuori dall’Italia? 

Matteo: in realtà la difficoltà… (ride)

Fabio: in realtà Matteo fa di continuo date a Londra da solo! Vive lì!

Matteo: no, in realtà si riesce a fare concerti fuori dall’Italia, l’unica difficoltà è che con il cachet fornito diventa complicato e dispendioso viaggiare, con i voli e tutto… O ci vai così, come investimento tuo, oppure devi avere un bel po’ di seguito e tante possibilità.

Ilaria: in realtà devi anche avere un giro di conoscenze per suonare all’estero. Abbiamo molti amici che suonano e abbiamo sentito esperienze di band a noi vicine che hanno già scritto un’infinità di e-mail all’estero per suonare, c’è da dire che ti rispondono tutti, a differenza dell’Italia, però si tratta comunque di conoscere locali, conoscere persone, avere contatti che ti facciano suonare. Noi non abbiamo ancora sperimentato.

Gregorio: secondo me la difficoltà non è tanto trovare delle date all’estero ma trovare delle date e adatte a noi e che non ci facciano rimettere dei soldi. Per ora non ci abbiamo provato, ma ci stiamo pensando.

 

E per quanto riguarda i progetti futuri?

Gregorio: famiglia dici? Figli, per ora no, dai.

Ilaria: a parte gli scherzi, abbiamo un sacco di sorprese in arrivo, davvero belle ma le teniamo ben custodite… E soprattutto lontane da voi Thrill Babes!
Gregorio: THRILL BABES, va detto con l’intrigo. Ok la smetto di interrompere la Boba (Ilaria, ndr).

Ilaria: sono sorprese che vogliamo rivelare a partire dall’autunno!

Fabio: diciamo che l’unica cosa certa è che questo sarà l’ultimo live fatto in questo modo (qualche mese dopo Fabio lascia gli OAK, in modo molto romantico*! E la band partecipa ai provini di X Factor, ndr). Non argomentiamo niente però… lasciamo tutto in un’aula magica.

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Cambiando argomento, il vostro EP si intitola We where elsewhere: ci dite dove eravate? 

Matteo: allora, eravamo un po’ in giro, io nell’arco di 12 mesi ho vissuto tra Londra e Bologna, io lavoro in una società immobiliare, ma non è interessante!

Fabio: io ero a lavorare in giro per l’Emilia-Romagna, intanto organizzavo anche il mio matrimonio… quindi ero davvero su un altro pianeta!

Gregorio: io ero a lavorare in montagna. 

Ilaria: io ero l’unica a Bologna! Lavoravo e studiavo. Ma in realtà il titolo ha più valore teorico, nel senso che tutti fammi eravamo molto impegnati a fare altro, avevamo la mente altrove proiettate anche sulle nostre altre carriere future, diciamo.

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Riassumendo quindi è un EP che parla di voi e del futuro, di quando vi sareste riuniti?

Gregorio: in questo EP vogliamo riassumere una situazione precisa. Qui ci sono stati concepiti nei luoghi e nei posti più disparati, siamo stati lontani mentre ci lavoravamo, sono stati creati in posti diversi, insomma un lavoro che non è stato fatto in un giorno, in una settimana, in un periodo solo. È stato un lavoro molto più lungo, volevamo raccontare questo sostanzialmente: finalmente questo EP sarebbe servito a riunirci e a cominciare a suonare insieme, portando in giro le nostre canzoni… però adesso vogliamo fare delle domande noi a voi eh! 

 

Ma questa è un’altra storia, che trovate nel nostro video reportage sui nostri canali (YouTube)

*la romantica lettera d’addio di Fabio (a noi piace vederla così) la trovate sulla pagina Facebook degli OAK, che potete seguire tramite i canali: 

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INSTAGRAM @oakismyband

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P.S. cercate questo video reportage sul nostro canale Youtube!  

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A cura di Giorgia Salerno

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OAK

Marianna scatta la cinquantanovesima foto della serata osservando il palco attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. Le luci del Biografilm Festival sono bellissime, la performance è fantastica e il lavoro verrà fuori bene. L’unica cosa che le dispiace è non poter andare al concerto di Osc2x, che stasera suonano in casa, precisamente nel giardino del Covo. Precisamente dall’altra parte della città.
E vabè. Sarà per la prossima.

Intanto io e Lucia siamo qui dal soundcheck e facciamo una lunga chiacchierata con gli artisti, Vittorio e Luca, che ci raccontano tante cose che non sapevamo e ci danno anche una bella esclusiva.

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Come vi sentite stasera?
Vittorio
: sono molto teso.
Luca: io sto digerendo la pizza! (Ride) a parte gli scherzi, capisco il punto di vista di Vittorio eh… ma si può fare finta di niente, dai.


Suonare a Bologna è più difficile o più facile rispetto ad altri posti?
Vittorio:
 Bologna… È un po’ come quando fai il saggio di musica a tredici anni, a fine anno, E devi dimostrare tutto quello che hai imparato alla fine dell’anno davanti a tutti i tuoi familiari… Mi sento così, avendo vissuto questa cosa dei saggi mi viene da fare questo parallelismo rispetto gli altre occasioni in cui ti giochi un po’ meno la faccia, diciamo! In più il Covo Club è il locale che più di tutti mi ha formato e quindi ho una sorta di debito culturale nei loro confronti che sto cercando di estinguere con le mie esibizioni… anche se mi rendo conto che non sarà mai al pari di Franz Ferdinand, Bloc Party, Futurheads e tutta una serie di concerti che abbiamo visto qui!

 

Parliamo un po’ del nuovo disco?
Luca:
 domanda scottante questa! Siamo in sala prove a dare gli ultimi ritocchi e a provarlo, ci vorrà ancora un po’ di tempo però… È molto bello, belle canzoni, un bel disco.
Abbiamo già il titolo?
Luca
: eh il titolo… Ci è venuta un’illuminazione oggi ma vorremmo ancora tenerlo segreto, ma è un bel titolo!
Dai dateci un indizio!
Luca
: diciamo che c’è una continuazione tra questo e quello precedente.
Vittorio: c’è un rimando, però in realtà stiamo ancora valutandolo è stato per molti mesi nella nostra testa come Sell Everything, cioè il “vendere tutto”.
Come mai quest’idea?
Vittorio: 
per esprimere il concetto di dedicare tutto ad un obiettivo nella vita, rendersi conto che viviamo per questo, per la musica… Quindi vendere tutto e bom! Concentrarsi esclusivamente su quello che vogliamo fare nella vita.
Quindi vendere anche il proprio tempo? 
Vittorio:
 Si, il tempo ma anche le cose. Se per esempio possiedo delle posate d’argento le vendo compro quelle di plastica inizio di rizzare quelle per risparmiare poter comprare gli strumenti necessari.
È stata già fatta questa cosa?
Luca
: mah si, in parte… Io ad esempio faccio anche un altro lavoro, come tecnico all’interno di una cooperativa, per poter guadagnare e comprare gli strumenti per suonare, perché appunto voglio averne tanti.

 

A proposito di strumenti, stasera ci sarà qualcosa di nuovo?
Luca:
 ah stasera ragazzi ci divertiamo..!
Vittorio: sì, stasera c’è qualcosa di nuovo.
Luca: non ci sarà più il nostro amico mg1 (sintetizzatore, ndr) perché è un po’ vecchio… È un po’ come se fosse il nostro migliore amico; in compenso c’è quel bellissimo strumento tutto grigio che ora vedete sul palco che si chiama repinique: è uno strumento brasiliano che fa un suono molto carino… Molto sordo e acuto.
Vittorio: è io inoltre suonerò il basso, riprendo il mio strumento madre quello con cui sono cresciuto. È un grande ritorno per me, è lo strumento che lascia il quale mi esprimo meglio e sono molto felice di questa cosa e spero che si senta durante il concerto.


A proposito della produzione del nuovo disco, abbiamo visto che collabora con voi anche Andrea Suriani: come si sceglie un produttore e perché?
Vittorio:
 beh lavoriamo con lui perché è il migliore. Ad un certo punto un artista vuole sentire come produrrebbe le sue canzoni un produttore grosso, in questo caso il migliore, per noi. È stata una bellissima collaborazione, molto fruttuosa, che ci ha aiutato a far suonare i pezzi come dovevano suonare ma che ci ha anche dato una prospettiva diversa sulla canzone… sicuramente cambiandola e arricchendola che è proprio il lavoro che dovrebbe fare il produttore; lui lo ha svolto nel migliore dei modi e e ci siamo anche resi conto dell’importanza di avere un terzo parere.


Che cosa ascoltate ultimamente?
Luca:
 beh io Tame Impala ce lo metto sempre! Ultimamente però ascolto molto anche Mac De Marco, quindi dream pop, io sono molto sognatore quando ascolto le canzoni…
Vittorio: io ho comprato ieri un vecchio vinile di Alborosie… perché vogliamo campionare i rullanti dal vinile…
E altri ascolti che hanno influenzato il nuovo disco?
Vittorio:
 sì, sono molto contento di dire questa cosa, perché ultimamente sto ascoltando tantissimo i Lunapop, però anche Cesare Cremonini in generale e mi piace davvero moltissimo. Un giorno migliore, Vorrei… E poi c’è questo Best Of che ha fatto nel 2012 dove ogni pezzo è più bello dell’altro… Seguendo questa linea ho ripreso molto anche i Beatles, anche per studiare in verità e migliorare la mia scrittura anche in termini armonici.
Quindi sarà un disco romantico?
Vittorio
: molto, assolutamente, molto romantico. Però tra i temi c’è anche la bruttezza dell’amore, quello che ti porta a essere una brutta persona… Quindi anche la sporcizia dell’amore, dell’uomo. Alla base c’è un discorso legato molto al sesso.
Avete in mente nuove collaborazioni?
Vittorio
: si! Io ho in mente un’idea bomba! Lo dico in esclusiva per voi: mi piacerebbe chiedere ai Forty Winks di collaborare. Questo è un gruppo a cui noi dobbiamo tanto: sono stati un  importantissimi all’interno della scena bolognese in cui noi siamo nati e cresciuti, da cui abbiamo attinto e imparato moltissime cose… Appunto mi piacerebbe chiedergli di fare insieme una follia, una canzone un po’ matta che parla di sesso, con un ritmo molto hip hop, cosa che per loro sarà molto nuova e diversa. 
Luca: ma diranno di sì, dai, loro sono dei grandi!

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A cura di Giorgia Salerno

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OSC2X

This is a man’s world? Intervista ad una rockstar diversa: Giungla (e la risposta è no)

Perché ogni volta che le donne fanno qualcosa di particolare viene sottolineato che sono proprio loro, le donne e non gli uomini, a fare qualcosa di particolare?
Questa frase potrà sembrarvi un po’ confusa ma se la rileggerete attentamente, noterete che è vera: capita tutti i giorni. Che sia una donna a fare qualcosa, in qualunque ambito, dalla meccanica alla moda, dalla medicina alla musica, desta sempre una certa curiosità. Perché?
Quando è una donna a compiere un’azione fuori dal comune (o meglio, fuori dal senso comune a cui siamo abituati), non è tanto l’azione in sé che viene sottolineata, quanto il soggetto agente. E allora è tutto un: la ragazzina che (incredibilmente) gioca bene a calcio, oppure la signora che ha fatto ripartire l’auto in panne, o ancora la bella ragazza che sta avendo successo come attrice nel film che c’è al cinema in questi giorni. Bella, si, certo, perché se è brutta dove crede andare? Un uomo brutto invece ci sta: è caratteristico, è particolare, ha un carattere forte, un modo di parlare tutto suo. Una donna brutta è solo… una donna brutta. Ma tanto simpatica eh, sia chiaro, fa quel che può!

Quella con Emanuela è un’intervista azzeccata che da’ tanti spunti su cui riflettere. Portatrice di grandi novità e calda voce electro-rock, con la sua one-woman-band Giungla ha conquistato velocemente il cuore dei suoi ascoltatori trasformandoli in fan sfegatati. Qui ci racconta un po’ di sé e delle discriminazioni di genere che, come dice lei, non dovrebbero c’entrare niente con la musica, come in qualsiasi altro campo.
Voler essere considerati per quel che facciamo a prescindere da chi siamo dovrebbe essere una prerogativa di tutti; e giudicare solo dalle apparenze e solo per il genere a cui apparteniamo è sbagliato… e chi sono io per dirlo, vi chiederete? In fin dei conti, fidatevi, questo conta poco: perché quando giudichi qualcuno non definisci la persona che hai davanti, ma solo te stesso.

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Quali sono le figure femminili a cui ti ispiri maggiormente?

Emanuela: due che mi hanno letteralmente cambiato la vita quando ho iniziato a muovere i primi passi nella musica sono state PJ Harvey e Beth Ditto. La prima è per me un grande esempio di saper “alzare l’asticella” costantemente, la prova che è possibile maturare e, perché no, invecchiare, mantenendo una credibilità ed eleganza fuori dal comune. Con Beth invece ho avuto la fortuna di dividere il palco e farci un po’ di chiacchiere anni fa e vorrei avere anche solo un briciolo del suo coraggio e attitudine; è la sorella maggiore che avrei sempre desiderato.
Tra le cose nuove invece le mie preferite sono Christine & The Queens e Grimes. Entrambe hanno dichiarato più volte – a parole, come scelte estetiche e non solo – di voler quasi annullare il fatto di essere “donne nella musica”, di voler essere considerate solo ed esclusivamente per ciò che fanno. Sono degli approcci che trovo molto interessanti, perché fanno riflettere molto oltre alla semplice musica.

Come ti fa sentire essere da sola sul palco?

Emanuela: mi fa sentire diversa per certi aspetti. Di solito me ne sto in un angolo, mentre sul palco riesco a tirare fuori tante altre sfumature e mi sto appassionando anche al lato più “performativo”. Mi diverto parecchio, quando posso mi piace anche scendere a suonare un pezzo in mezzo al pubblico e il bello è proprio che ogni volta è diverso.


Come è iniziata la collaborazione con Federico Dragogna (paroliere, chitarra e cori della band I Ministri, produttore, ndr)?

Emanuela: con Fede ci siamo conosciuti nel 2009 quando suonammo al Mi Ami con HHTG e venne a presentarsi dopo il concerto con quel suo sorrisone. Da quel giorno abbiamo diviso il palco assieme parecchie volte e con il tempo è diventato un caro amico con cui mi è sempre piaciuto confrontarmi. Conoscevo poi ovviamente il suo lavoro come produttore, quindi per me è stato molto naturale pensare di rivolgermi a lui quando mi sono ritrovata con questi pezzi e il bisogno di ordinare le idee. C’è stato da ancora prima di sapere che nome avrei scelto, sia nella fase in cui pensavo avrei messo su una band, sia quando ho deciso di far stare in piedi tutto da sola; gli devo molto.

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Secondo te cosa significa essere un’artista donna oggi in Italia, all’interno del panorama musicale attuale?

In generale io sono convinta che il genere non dovrebbe c’entrare nulla con la musica, come in ogni campo. Comunque quest’anno in Italia mi sembra ci sia stata più voglia di sottolineare che le musiciste non sono più rare ed è una cosa bellissima e importante, che porta inevitabilmente un significato – silenzioso o più esplicito che sia – che riguarda questioni molto più ampie, come cultura ed educazione.
Quando si guarda ad una donna che fa musica, c’è spesso ancora questo bisogno di definirla oltre a ciò che fa (carina o meno, magra, grassa, eccetera) o, peggio, la si tratta con sufficienza o come se fosse invisibile. Insomma, per rispondere alla domanda, purtroppo a volte significa anche questo. Ma dall’altro lato io la vedo un po’ come quando ero piccola e giocavo a calcio in una squadra maschile: lo facevo perché semplicemente mi piaceva e avevo diversi amici, ma c’era anche chi non voleva nemmeno fare due passaggi con me solo perché ero l’unica femmina… così quando facevo goal, in un certo senso, era come se valesse doppio.

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Potendo scegliere, con quale artista ti piacerebbe collaborare?

Emanuela: nel mondo dei sogni, mi piacerebbe tantissimo lavorare con Beck, adoro il suo modo di mischiare generi e giocare con diversi sound. Poi mi piacerebbe conoscere e magari provare a chiedere un remix a Jessy Lanza.

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Da dove proviene Camo, il titolo che hai dato al tuo EP? E, più in generale, da cosa trai ispirazione per i tuoi testi, così forti e trascinanti?

Emanuela: Camo sta per “camouflage”, che è l’immagine che avevo in testa quando ho registrato questi pezzi, che hanno un sound abbastanza diverso tra loro, quasi audace-mimetico. L’ispirazione è molto varia. Ad esempio, un pezzo è nato da un sogno ricorrente che ho fatto per anni, un altro da una discussione in spiaggia… in ogni caso in generale sicuramente sono molto legati a certe immagini/parole che poi decido di sviluppare. Ho studiato grafica, quindi sono abbastanza fissata con il discorso visivo.

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Usi Shazam? Se sì, ti chiediamo quali sono le ultime cose shazammate. In caso contrario, quali sono i tuoi ultimi ascolti, cosa ti piace?

Emanuela: lo uso spesso e lo trovo una grande invenzione! Le ultime sono queste:
Mina – E poi
Asha Bhosle – Ubi Baba
Jane Weaver – Don’t take my soul
Justin Martin – Hello Clouds (feat. Femme)
Per il resto, in questo periodo sto divorando l’ultimo disco di Bon Iver e alcune playlist hip hop.

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A cura di Giorgia Salerno

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GIUNGLA

La vita è un tour: i viaggi senza fine, lo sport, l’amore per Bologna. La ricetta per vivere bene delle Altre Di B.

Le Altre di B sono Giacomo, Giovanni, Alberto e Andrea. Quattro caratteri completamente diversi, quattro regaz che potresti incontrare ovunque a Bologna… E, sdraiati in un prato sotto al sole estivo, come in alcune belle canzoni romantiche che ci piacciono tanto, ci hanno raccontato gli affari loro, senza battere ciglio! Dei mega tour che hanno vissuto, dei palchi fantastici che hanno calcato, delle folle che hanno intrattenuto con la loro musica durante i loro viaggi in giro per il mondo.  
Amanti di Bologna, la loro città, compongono e scrivono musica in inglese, regalandoci un’idea di italianità ormai rara: quella di chi, pur amando follemente il proprio paese, non smette di avere quella voglia incredibile di andare, prendere e partire, portare all’estero qualcosa di tuo, dal tortellino al giro di basso, senza stancarsi mai di tornare, che a volte è ancora più bello di partire. Perché alla fine i portici, i ciottoli di piazza Santo Stefano, lo stadio, il lavoro di sempre, quello dove sudi, quello che “porca miseria”, quello dove non ci sono le luci né i tecnici del suono, e poi l’odore del tuo letto, la pioggia di città, le torri, il giornale, insomma Bologna tutta… sa di casa.

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Voi suonate da tantissimo tempo, ormai sono undici anni e avete fatto e moltissimi tour, dagli Stati Uniti all’Europa: quali sono le cose che non avete ancora fatto, i sogni che vorreste realizzare ora?
Giacomo
: andare a suonare in Cina, e ci stiamo lavorando. La stiamo progettando da due anni.

Andrea: io invece volevo dire una cosa seria (!), si sono bellissime tutte queste cose dette insieme però tutte le volte che finisci di fare qualcosa è sempre bello farne subito un’altra, insomma avere sempre in testa un obiettivo da realizzare…

Giacomo: questa è una metafora del ciclismo! Comunque a parte il tour in Cina su cui stiamo realmente lavorando vorremmo fare un tour negli aeroporti, è una cosa molto complessa e difficilmente realizzabile però abbiamo qualche contatto e forse… E anche un tour negli asili nido!  

Avete in mente delle collaborazioni per il futuro?

Giovanni: mah… no!

Giacomo: in realtà abbiamo provato a metterci in contatto con dei gruppi anche all’estero ma non ci hanno risposto! Abbiamo, non so, la band preferita, l’idolo che ascolti da quando sei piccolo… però per ora niente!

E a proposito del Primavera Sound Festival di Barcellona, dove avete suonato di recente, cosa ci dite? È stata un’esperienza costruttiva?

Giovanni: più che altro è stata un’esperienza distruttiva! Ma a parte gli scherzi è stato bellissimo, non solo per l’esperienza in se di suonare in uno dei più importanti festival di musica europei, ma anche per i concerti che abbiamo visto e per gli artisti che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare… E poi è stato bello anche perché abbiamo avuto ancora una volta la conferma che (ora me la tiro un po’, posso?) anche davanti ad un pubblico internazionale riusciamo ad essere apprezzati nel nostro piccolo, quindi è stato molto soddisfacente.

Avete in mente di fare qualcos’altro in italiano, oltre al pezzo “Campetto”? Ci è piaciuto molto!

Giacomo: si!

Giovanni: ah sì, Jack? Le impariamo anche noi queste cose, proprio ora!

Giacomo: (ride) in realtà dopo l’esperienza di Campetto in molti hanno pensato che avremmo intrapreso quella strada, però no, non lo faremo perché vogliamo dare una coerenza a questo gruppo, che ha questo nome e questa storia… Però fra poco dovrebbe uscire un documentario sullo stadio di Bologna, il Dall’Ara, e ci è stato chiesto di farne la colonna sonora, quindi alle canzoni vecchie che già abbiamo volevamo integrare un altro pezzo in italiano.

Giovanni: il film è il Mi Chiamo Renato!

A proposito di questo grande amore per lo sport, volevamo chiedervi quali sono gli sport che vi piacciono di più e soprattutto… se doveste creare una formazione di calcetto in questo momento, quali sarebbero i vostri ruoli?

Giacomo: bellissimo! Beh sugli sport farei rispondere il più sportivo del gruppo che è lui, Andrea.

Andrea: sport che ci piacciono… beh con me sfondi una porta aperta, faccio prima a dirti quali sono quelli che non mi piacciono, tipo il volley. In realtà in questo momento ho una grande passione per il baseball, a cui gioco da un annetto… E poi tennis e basket.

Giovanni: a me piace molto cucinare!

Alberto: io direi tennis e atletica leggera.

Giacomo: si lui è un campione regionale!

E la formazione di calcetto?

Andrea: beh Giacomo sicuramente in porta, io mi metterei in difesa, bello arcigno e aggressivo.

Giovanni: il mio ruolo storicamente è quello della fascia destra, schierato è impegnato.

Alberto: io porto le birre!

Giacomo: no dai, Albi attaccante. Noi abbiamo anche un passato vincente in campo, abbiamo giocato al Tutto Molto Bello (il primo torneo di calcetto per etichette indipendenti, che torna con la sua VI edizione anche quest’anno dal 16 al 18 settembre a Bologna, ndr) e lo abbiamo anche vinto! Dream team.

Prossime date?

Giacomo: ci vediamo il 24 settembre all’opening party del Covo Club a Bologna!

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Buona.

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A cura di Giorgia Salerno

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ALTRE DI B

Venerdì 6 maggio 2016. Arriviamo alla Velostazione Dynamo, nel cuore di Bologna, trafelate e con una gran sete. Salutiamo tutti, baciamo tutti, abbracciamo tutti… ma dove diavolo è il bar?
Eccolo. Ci fiondiamo al bancone: vodka lemon e spritz, anche se forse è un po’ presto, ma noi non ci formalizziamo. Per fortuna, anche I Camillas sono di questo avviso: conosciamo subito Ruben, Zagon e Michael, ridiamo e scherziamo, beviamo qualcosa insieme e poi ci rubano il telefono. Ok. Avviano una diretta live sulla nostra pagina Facebook in cui parlano mischiando le cose tipo un discorso nel quale comunque cioè vabè dai si insomma ci siamo capiti. Quando finalmente ci sediamo sul divano a parlare manca meno di un’ora al live e si decidono a raccontarci i fatti loro: qui inizia il bello.

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Conosciamo bene la vostra canzone Bisonte, in cui fate i versi degli animali. Volevamo sapere quali sarebbero i versi della vita quotidiana se il brano avesse dovuto intitolarsi, che ne so, “Essere Umano”?
Guardate che questa è una canzone seria… a proposito di gente  che nel sud est asiatico si alza alle sei del mattino e fa 50km con una bicicletta che ha una sola ruota, sgonfia… e voi indossate i vestiti fabbricati da loro! Fossi in voi li toglierei subito! Dai, a parte gli scherzi, è importante questa canzone per noi: è capitata in un contesto televisivo ad aprile 2015, ma in realtà è nata prima. Molto prima, quando ancora i versi sulla Terra non erano tutti disponibili…
Qual’è il vostro rapporto con Bologna?
Io ho un fratello che vive qui e lavora qui dall’85, si chiama Francesco. Lui da’ vita a Bologna e Bologna lo ha adottato, non posso non amarla!
Parlateci un po’ di questo nuovo disco, che è fresco fresco ed è uscito da poche ore!
Certo, è un disco nuovissimo che ha un apostrofo, cosa molto importante da dire, infatti si chiama Tennis D’Amor. Questo disco è precipitoso, essenziale, precipitato nelle nostre mani insieme all’euforia di essere un trio e non più un duo, infatti ora con noi c’è anche Michael (batteria, entrato nella band dal 2015, ndr). Un disco largo ma stretto, ha dentro dei brani speciali.
Spiegateci cosa significa Tennis D’Amor?
C’è questa ambiguità, no? Vorrà dire tennis di amore o tennis da amore? Uno spazio di indecisione che grazie all’apostrofo assume significati diversi a seconda che sia una o l’altra interpretazione.
Questo disco va dentro l’amore. Perchè alla fine l’amore com’è fatto? è una linea. Quando non c’è la linea non c’è l’amore. Quando c’è la linea, c’è l’amore. Ci siete? Il tennis d’amor non è altro che la presenza di un amore, ma detto così non rende… è quell’amore nella sua prima fase, cioè… ma non vi posso spiegare tutto!
Dai provaci, siamo curiose.
Non è quella relazione che hai con una singola persona per tutta la vita… è il tuo situazionarti con l’amore. Sono diversi momenti dell’esistenza, vari, quelli in cui ancora non hai trovato l’amore quello eterno, quello del per sempre: il tennis d’amor è quel particolare momento della vita in cui l’amore c’è, non c’è, c’è, non c’è… a battute, come nel gioco del tennis. Ma non spieghiamo troppo le cose, è giusto che ognuno lo immagini a modo suo.
La vostra canzone “Il Postino” ci è piaciuta molto!
Grazie! Infatti è l’unica che non abbiamo scritto noi, grazie davvero (grasse risate). Calcutta, è un nostro grande amico, l’ha scritta lui per noi, come saprete, ed è davvero bellissima. Il postino è uno dei simboli dell’amore, alla fine… l’amore consegnato, non consegnato, te lo consegno ma non leggi, lo ricevi… Sono innamorato di te ma te lo dico, o non te lo dico?
Quindi possiamo dire che, come Calcutta, giocate con il concetto d’amore e siete dei romantici anche voi?
Beh si, c’è anche l’amore, è uno degli elementi principali delle nostre canzoni, ma Calcutta è ad un livello superiore: lui è un giocoliere dell’amore, noi siamo nella fase prima. Mentre lui già ne parla, noi siamo ancora lì che balbettiamo. Quando sei innamorato hai quella fase di gnm blabla sgnak, dove c’è intenzionalità ma non ancora le parole vere e proprie. Ecco, noi siamo lì, pura intenzionalità prima ancora dell’oggetto concreto.
Avete altre collaborazioni in mente?
Beh si ne abbiamo una in mente da un bel po’, quella con Flavio Giurato, un grande cantautore italiana. Uscirà un disco fatto con Flavio Giurato a fine anno, nel 2017, che non ha ancora un titolo… ma esiste già, è stato registrato. C’è da dire che non siamo grandi amanti del digitale eh, infatti non lo usiamo, al suo posto ci serviamo di un cubetto di muffa. Secondo noi presto tutto questo finirà, sarà un grande scherzo del dio del digitale, e di tutte le canzoni scaricate e caricate ne resterà solo una!
Quale sarà?
Luna di Gianni Togni. Si sentirà solo: LUNA! e poi finirà tutto. Succederà.
A proposito di cose che finiscono, voi cosa fate quando finite di registrare? Ma anche durante la fase creativa di un disco, avete delle abitudini?
Noi per fare gli album dormiamo. Dormiamo molto per produrre energia. Poi abbiamo tutti quanti dei piccoli santini che teniamo in tasca, appartenenti ad una santa minore della Chiesa, Santa Delizia, che viene adorata solo in sei chiese in tutta Italia. Tenendo in tasca questi santini profumati all’amarena riusciamo a raggiungere l’ispirazione per creare le canzoni che voi ascoltate. Un’adorazione minima ma essenziale.

 

Vi lasciamo con questa massima:

“Nell’ambito di una musica moderna, dove eroi e falsi eroi si distinguono a breve, un complotto, un collettivo, un Camillas executio, una perplessità, un angioma, un qualcosa che non è ovvietà ma solo impulsi, nella sinergia, nella pediatria, nel sofisticato e nell’ingenuo, in qualcosa di ovvio e a tratti scontato, similmente… metteteci amore.”
– I Camillas

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A cura di Giorgia Salerno
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I CAMILLAS

A fare il brunch con Phill Reynolds da Olmo

La sveglia suona insopportabile nelle orecchie di Lucia che si sveglia di soprassalto, apre un occhio guardando il cellulare: è domenica. La spegne. Si rigira in un letto che quasi non riconosce e richiude gli occhi. Li riapre.
È domenica. Sorride.
Si alza di scatto, si veste,  prende il telefono: “Giò, siamo in ritardo!”

“Sto arrivando!”
La domenica di solito mi intristisce o mi innervosisce (a seconda) perché non sai mai che cosa fare davvero della tua vita: tutto si muove a rilento. Il traffico, la gente, le voci, i tuoi pensieri. Ho pochissimi ricordi davvero belli legati alla domenica. Eppure sento che quella di oggi sarà diversa. Intanto perché sto andando da Olmo, e solo l’idea di addentare uno di quei panini mi mette di buonumore; e poi perchè abbiamo appuntamento con Silva Cantele, aka Phill Reynolds, che ci aspetta per fare due chiacchiere e un live acustico che non vedo l’ora di ascoltare.

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Cos’hai mangiato oggi da Olmo? Siete molto amici tu e Maolo (proprietario del locale e membro di My Awesome Mixtape, ndr)? 
Ah, con Maolo ho un bellissimo rapporto, ci vediamo poco e non ci conosciamo tantissimo, ma ci siamo sempre trovati molto bene insieme. Ha il suo bel modo di fare eh, in dialetto noi diciamo “è fatto ca’ menara” cioè che è fatto con l’accetta, è molto schietto, ecco! Ma ci piace anche per questo. Lo stimo molto anche musicalmente, per quel che faceva con Awesome Mixtape: ci siamo conosciuti proprio grazie al suo progetto, sono stato ad un suo concerto e mi piacque da morire, poi qualche tempo dopo mi chiamò per suonare a casa sua. Oggi poi ho mangiato benissimo, ho fatto un po’ l’hipster eh, perchè cercando di fare anche il bravo con il glutine eccetera… però al menù c’era una mega aggiunta di patate e succo al melograno.

Ci parli dell’EP che hai creato registrandolo con il cellulare?
È stato il mio terzo progetto, nel 2013. In realtà basta solo stare un po’ attenti alla posizione del telefono e trovare ambienti adatti alla registrazione, tipo le chiese: fai finta di essere credente (ride), ottieni in qualche modo gli orari di tutto quel che organizza la parrocchia, stai attento alle campane e per il resto niente… Sei dentro! Non sono arso vivo, come vedete! Poi l’ingresso di una grotta dalle mie parti, Buso Della Rana, è stato un ottimo luogo dove registrare, e anche la saletta dove insegno musica.
Quindi che ruolo hanno per te il digitale e la tecnologia nei componimenti? 
Il telefono mi ha aiutato tantissimo, perché permette di salvare le idee, idee che poi diventeranno canzoni. Ho delle lacune tecnologiche spaventose rispetto ai miei amici che riescono a fare cose fantastiche anche da soli, facendo tutto in casa. Io invece sono pigro, faccio fatica, sono ancora convinto che alla fine della fiera, al di là della tecnologia e dei like, la cosa che ti fa andare avanti è la qualità di quello che scrivi. Questo secondo me deve rimanere il fulcro di tutto. Vedo molte persone, spesso più giovani di me, perdersi più in tutto quello che c’è intorno alla musica, piuttosto che nella musica stessa… e magari funziona anche eh! Perché funziona tutto questo, ma non è sostanza.
Noi cerchiamo di trasmettere tutto live, cerchiamo anche nel nostro piccolo di far venire voglia di uscire di casa per correre a sentire un concerto. Cos’è per te la musica dal vivo?
Questo è bellissimo, la musica dal vivo è qualcosa di speciale.Si sta perdendo la bellissima abitudine di andare a sentire quello che ascolti in camera tua, dal vivo… è dal vivo che vedi quanto ha da dire, quanto ha sudato un artista.
Quindi abbassate i cellulari e godetevi il concerto insomma…
Ma si, anche lì, voglio dire goditi il contatto diretto. Ne va anche della tua vista, anche dal punto di vista meramente fisico. Guarda, ascolta, vivi, balla… anche perchè non si può tornare indietro e rivivere tutto: il concetto del qui e ora. Sembra una cosa cieca, ma non lo è assolutamente: se si fanno le cose coscientemente, l’adesso è anche il futuro.
Vorremmo un po’ sapere del tuo cambiamento di stile, ispirato anche ad artisti come Bon Iver: a che cosa è dovuto? 
Diciamo che tra i nomi più conosciuti, oltre Bon Iver, la mia prima fonte di ispirazione verso questa cosa che e meno blues e più folk – negli stati uniti nessuno mi ha mai detto che faccio folk, ma usiamo questo termine per farci capire – è stato The Tallest Man On Earth, che sia da un punto di vista compositivo che vocale, ma anche chitarristico, mi ha dato molti stimoli. Io avevo già studiato chitarra finger style al CPM di Milano con Pietro Nobile, che non vedo da quegli anni e che mi ha dato tantissimo, non solo dal punto di vista musicale. Forse questa nuova scelta stilistica è dovuta anche ad un mio cambiamento, probabilmente mi sono ritrovato a scrivere con meno foga, meno rabbia e più introspezione. Effettivamente adesso che ci penso è stato anche un po’ un procedimento mentale, però è stato molto spontaneo.
Hai già qualcosa in mente per i prossimi progetti?
Il prossimo disco che registrerò a fine luglio, sempre a Brescia, sarà un concept album e ci sarà una ricaduta diciamo (ride) con un paio di brani un po’ alla vecchia, più blues, con la chitarra accordata in do… ma non dovrei parlarne troppo! Probabilmente si chiamerà The Driver, o The Drive… o poi magari lo chiamerò Gabriella, chissà.
Vorremmo sapere le ultime cose che stai ascoltando? Usi Shazam?
Pochissimo. Però ultimamente sto ascoltando un bel po’ de I Dischi Del Sole (etichetta discografica fondata a Milano negli anni ’60, ndr), quindi canti, cori italiani e altre cose che mi ha consigliato Jacopo – Iosonouncane. Poi sto ascoltando sempre, come sempre, tantissimo, Springsteen… e sono molto curioso dell’ultimo disco di Beyoncè, che è sempre più incazzata. Inoltre mi ritrovo sempre ad ascoltare un brano di Fossati, Una notte in Italia, legato a dei ricordi che ho di mio padre.
Quali sono le situazioni più personali e le cose più tue che hai inserito nel tuo lavoro?
Questa è una bella domanda… sia per cose che ho ascoltato tantissimo, come Springsteen e De Andrè, con cui sono stato cresciuto dai miei genitori, a me viene spontaneo raccontare storie che non sono necessariamente le mie; ci metto molto di mio emotivamente parlando, però… hai fatto una buona domanda. Faccio molta fatica ad inserire nei miei progetti esperienze mie. La cosa più esplicita che abbia fatto è il brano Man, che è un po’ un ragionamento sul fatto di essere uomini. Ti rendi conto di esserlo e pian piano tisi costruisce addosso questa forzatura di ruoli che è nociva per noi e tantissimo anche per voi (donne, ndr).

Vorremmo sapere se hai qualche rituale nel momento in cui devi scrivere o registrare?
Spesso quando devo portare a termine le mie cose, ripenso ad una frase, che poi sono le cose che si studiavano al liceo: “emotions recollected in tranquillity” (il concetto di cr
eazione poetica di Wordsworth, ndr). Questa cosa mi è rimasta molto, quindi, visto che abito tra le colline dell’alto vicentino, che sono meravigliose, spesso mi ritrovo a prendere la chitarra e andare a fare quattro passi tra i torrenti e i boschi. Ampliando un po’ il discorso, l’unico rituale che ho bisogno veramente di fare ogni volta, anche solo per quattro canzoni, è la scaletta. Devo scriverle.

Le tue prossime date?
25 maggio @Batzen Sudwerk, Bolzano
28 maggio @Morborock, Morbegno (SN)
29 maggio @Upcycle, Milano
19 giugno @Biografilm Festival, Bologna

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A cura di Giorgia Salerno
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PHILL REYNOLDS

La band di Calcutta si racconta

Aaron, Francesco, Alberto e Paolo ci hanno raccontato un po' di segreti in un'intervista esclusiva al Biografilm Festival di Bologna. Per rendere il tutto ancora più divertente abbiamo deciso di commentare la loro intervista in stile Gialappa's Band con Calcutta ed il loro romanissimo manager, Davide (Bomba Dischi, ndr).

Pronti? Premete play.

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Video a cura di Lucia Lercker

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CALCUTTA BAND

Fare serata con POP X (o come diventare frocidellaNike)

Pop X è il il misterioso progetto musicale dietro cui si cela Davide Panizza, ragazzo di Trento che insieme ai suoi compari (Luca Babic, Niccolò Di Gregorio e Walter Biondani) ha deciso di portare in giro un live completamente fuori dagli schemi: lui canta e compone insieme a Niccolò - registrando tutto nell'oscuro Studio Harem di Montecchio - mentre gli altri, Niccolò compreso, performano sul palco portando in vita le loro folli creazioni musicali. 

Li abbiamo conosciuti a Bologna e da lì non li abbiamo più mollati. Scoprite perchè.

 

Perché hai scelto di avvalerti di performer? In che modo rendono le tue esibizioni migliori?

PERCHE’ SONO RICCHIONE, e come tutti i ricchioni sono prima di tutto un performer, dopo un amatore, e alla fine un coglione.

Un aggettivo che descriva ognuno dei performer.

FROCIO PERSO, un aggettivo per tutti.

Cosa ti ispira maggiormente nel creare i testi delle canzoni? Nei tuoi testi sembra esserci qualcosa di molto personale, quali sono le esperienze che vivi che ti portano a scrivere?

SCRIVO DI ESPERIENZE PERSONALi, MI FACCIO ISPIRARE DAL CESSO, QUANDO DEFECO MI ISPIRO. Abbiamo letto un'intervista tra te, Niccolò Contessa de I Cani e Cosmo, fatta qualche anno fa: il concetto di concerto come ultima festa che hai espresso allora, secondo te ha ispirato Cosmo per dare il titolo al suo ultimo album?

OVVIO, QUEL PORCO ESSENDO PRIVO DI FANTASIA QUANDO STAVA INTITOLANDO IL SUO DISCO SARA’ SICURAMENTE ANDATO A CERCARSI LA INTERVISTA SU ROCK IT

Quando dici: "questo pianeta non lo sento..." nella canzone Il mio pianeta, cosa intendi? Perché non lo senti tuo?

IO SONO DI VIA MACCANI DI TRENTO, UN PIANETA A SE’, QUI CI SONO GLI AUTOBUS, I PANIFICI, LE STRADE ASFALTATE, LE DONNE EDUCATE.

I tuoi testi sono particolari e "pazzi" ma c'è una linea conduttrice tra tutti: credi esista un modo oggettivo per recepirli, nel senso che raccontano una storia precisa insomma (e se lo fanno, qual è?), oppure sono semplici metafore che ogni persona deve intendere a modo suo?

I MIEI TESTI SONO ESPERIENZE TOTALIZZANTI, VI CONSIGLIO DI METTERVI NUDI MENTRE ASCOLTATE O LEGGETE I TESTI, PRENDETEVI UNA SETTIMANA ANDATE SOLI IN QUALHE LOCO E MASTURBATEVI. La tua comunicazione è senza filtri, un esempio tra tutti la frase "musica dipendente da sostanze stupefacenti a scopo di lucro, che promuove l’abuso di alcolici tra i minorenni e le nuove generazioni...” Leggendo questa descrizione del progetto uno resta sbalordito: quanto c'è di vero e quanto di provocatorio? TUTTO VERO. NOI SIAMO TOSSICI DI ALCOL, SIAMO ALCOLIZZATI

Cosa ascolti di recente?

HO ASCOLTATO IL DISCO DI EDOARDO CALCUTTA IN REVERSE POICHE’ L’ORIGINAL VERSION MI FA VOMITARE. IN REVERSE E’ UN DISCO FIGO.

Hai fatto un remix di Aurora e Non finirà de I Cani. Perché proprio queste due?

E’ STATO MIO NIPOTE A SUGGERIRMI QUESTE DUE, HA 1 ANNO E MEZZO E GLI HO CHIESTO IN QUALE DEI duE BRANI Si RISpecCHia MI HA DETTO AURORA E NON FINIRA’ POICHE’ DI UNA AMAVA IL GIRO DI BASSO DELL’ALTRA ALCUNI ACCORDI AZZARDATI.

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Per darvi un'idea di come è andata la serata...

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A cura di Giorgia Salerno

Video di Lucia Lercker

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POP X

Tanti capelli e occhi grandi: Francesco Motta si racconta al Locomotiv Club di Bologna

FRANCESCO MOTTA

Locomotiv Club ore 19:oo. Soundcheck. Ogni volta che mi ritrovo ad una sessione di prova mi sento un po’ una privilegiata... è come avere un secondo concerto personale. In fondo forse mi sento anche un po’ un’intrusa in una famiglia che non conosco ancora: l’atmosfera è calda, sa di casa, i tecnici e i musicisti si scambiano poche battute, quelle necessarie a finire il lavoro, si sente la confidenza solida che scorre tra persone che si conoscono da tanto tempo, che non hanno bisogno dirsi molto a parole. Tutto molto bello, tutto molto intimo e sentito, la serata sarà un successo.

Dopo il concerto, Francesco Motta, un sacco di capelli e occhi grandi, ci sorride fumando una sigaretta: dopo l’incredibile live scambiamo due chiacchiere con lui e ci racconta un po’ di cose.
 

Ma abbiamo visto bene!? Hai rotto le bacchette sul palco durante il concerto?
Eh si… (sorride) ma in realtà poi le bacchette si spaccano perché le prendi in modo sbagliato, è un po’ come quando ti si rompe un bicchiere in mano: non è che più forte suoni e più rischi di rompere le bacchette… Anche se in effetti si è suonato parecchio forte stasera.
Che cos’è per te la fine dei vent’anni?
È un momento speciale a cui volevo dare un nome, rappresenta per me una fine di cose molto belle e un inizio di cose molto più belle e molto più consapevoli rispetto a prima. Sono finite delle magie e nei iniziano altre.
Quindi la vedi come una cosa positiva?
Molto. Molto positiva, ci tengo a dirlo perché quando si parla di “fine” spesso ci si immagina una cosa malinconica e triste. In realtà poi la malinconia è una delle cose più belle ed emozionali che esistano secondo me, è un’emozione molto forte. Quindi si, mi sento bene, mi sento molto soddisfatto del lavoro che abbiamo realizzato.
Volevamo parlare con te della canzone Sei bella davvero: ci è piaciuta moltissimo, è vero che è dedicata ad una transgender?
Si, è vero, assolutamente. Sei bella davvero è un modo di sottolineare con il cuore una frase, in quel caso particolare immaginarsi di fare questo complimento. L’ho fatto insieme a Riccardo Sinigallia, produttore del disco, amico, fratello e protagonista delle mie interviste e della mia vita negli ultimi due anni… ci siamo molto emozionati a pensare di dire sei bella davvero ad una transgender. Non credo che la bellezza abbia un canone.
Viste le difficoltà ed i problemi che hanno transgender, omosessuali e non solo, nell’affermare i propri diritti in Italia in questo momento, possiamo dire che è stato anche un gesto politico?
Mah, io credo che dal momento in cui si parla di canzoni d’amore, lo dico sempre, per me sono anche canzoni politiche…. Nel momento in cui tu dici la tua opinione, ogni gesto è politica. Quel che ho notato ultimamente è che sui social network ti chiedono “a cosa stai pensando?” e la gente dice tutto il contrario di tutto, senza pensarci, questa è una cosa brutta dei social. Poi magari dire una cosa, anche molto pop, come “sei bella davvero” secondo me è giusto, è una verità e la dico nel modo più libero possibile. Penso una cosa quindi dico una cosa. Anche se non mi riferissi a una transgender, sarebbe una cosa politica lo stesso. È giusto fare politica, è giusto cantare canzoni d’amore, è giusto essere coscienti di quello che si dice e dire la verità.
Avete dei rituali o delle abitudini durante la creazione e la produzione?
Vere e proprie abitudini non direi… Ma una delle cose che mi hanno affascinano di più durante la produzione me l’ha insegnata un po’ anche Riccardo Sinigallia: è questa associazione tra ogni singola nota che non cambia il significante delle parole e dei testi, ma cambia il significato. Eravamo davanti al computer con un’emozione incredibile perché quel che ci piace fare di più in realtà è proprio la sessione di produzione, lavorare davanti al computer. Tutto questo, emozionandoci ovviamente ci fa anche paura: appena abbassavamo di 0,5 decibel… che magari per quelli che non lo sanno è praticamente niente, ma per noi invece cambiava proprio tutto della canzone! Ci coinvolge sempre molto la produzione, quindi possiamo dire che non è un rituale ma che siamo, soprattutto Riccardo lo è, persone che amano lavorare molto e con precisione sulle cose.
Quindi hai un bel rapporto con Riccardo Sinigallia? 
Certo, lo stimo molto. Riccardo è un cantautore incredibile, credo sia il migliore in Italia, ha prodotto moltissimi artisti e non capisco perché di lui non se ne parli giornalmente. Ha fatto un sacco di produzioni e lavorandoci insieme io stesso ho capito e il valore del lavoro che svolge, per questo non capisco perché tutti gli artisti che ha prodotto non parlino di lui più spesso… forse per paura di esporsi riguardo al lavoro che ha fatto.
Cosa ami ascoltare in questo periodo?
Salmo. Oggi però abbiamo ascoltato una colonna sonora di un film incredibile che si chiama Velvet Goldmine che parla della storia del glam rock.

 

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A cura di Giorgia Salerno

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Circa 10: le cose da sapere su Mecna adesso

Quando entra lui sul palco il pubblico trattiene il sospiro, gli occhi e le mai sono tutti protesi verso un unico punto emozionale, e non c'è storia di Instagram che tenga, quando Corrado Grilli (aka Mecna) sorride e dice "dai ragazzi mettete giù quei cellulari, facciamola davvero 'sta musica", la platea torna buia e ci si gode un vero concerto, appassionato e sudato, che non hai bisogno di guardare attraverso lo schermo del telefono del tizio che hai davanti.

Una performance vecchio stile, tra il pubblico e il rapper, una gara a chi si emoziona di più, con (addirittura) le macchine fotografiche analogiche che scivolano tra i partecipanti; facce contente, venute male, arrossate, che resteranno per sempre impresse nel rullino che Corrado si porterà a casa.

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Com'è suonare a Bologna? Che rapporto hai con questa città?

Mecna: bellissimo come la prima volta che ci ho suonato. Certo, la prima volta che ci ho suonato c’erano 100 persone, ma il calore e l’affetto erano uguali.

 

Hai detto che queste canzoni sono piene di paranoie, da cui il titolo dell'album. Come convivi con queste? Quali sono gli antidoti migliori alla paranoia? 

Mecna: paranoia per me vuol dire qualcosa di positivo, io stesso non lego molto con gente che non ha paranoie, che è sempre presa bene, felice, sorridente. La musica è il miglior antidoto, perchè è quella cosa che trasforma qualsiasi bad vibes in qualcosa di nuovo.

 

Sappiamo che l'emotività è il fulcro della tua musica.  È difficile aprirsi così e buttare fuori quel che si prova, scrivendo?
Mecna:
in realtà no, lo sarebbe molto di più scrivere di cose che non sento, che non mi smuovono nulla dentro. Certo, poi c’è sempre l’incognita di come la gente prenderà quello che di più personale scrivi, ma quella è una fase del processo in cui è ormai troppo tardi.

 

Chi credi che siano le persone che hanno influenzato di più questo disco? Sia artisticamente che personalmente parlando. 

Mecna: tutto ciò che mi circonda è dentro questo disco. L’amore, la famiglia, gli amici persi e trovati. Ogni disco che faccio è una fotografia di un periodo, in cui c’è spazio per delle storie, delle riflessioni e dei pezzi che descrivono esattamente ciò che ho vissuto.

 

Malibu e Il tempo non ci basterà sono due pezzi che non ci si aspetta, prendono una direzione diversa rispetto agli altri, prodotti da Godblesscomputers. Che rapporto hai con questo producer? E, più in generale, come ti fa sentire collaborare con altri artisti? Hai in mente collaborazioni per il futuro?

Mecna: ho sempre cercato di collaborare con gente capace e che portasse qualcosa di più alla mia musica. Non mi sono mai limitato soprattutto a livello sonoro, scegliendo che ne so produttori strettamente “hip-hop”. Con Lorenzo abbiamo un ottimo rapporto, ci siamo scritti per farci i complimenti a vicenda e allora non abbiamo visto un motivo valido per non collaborare. 

 

Le relazioni uomo-donna sono tra i temi ricorrenti dei tuoi pezzi, spesso ti definisci come quello in imbarazzo e un po' a disagio, mentre invece sul palco sembri molto sciolto. Come mai questa duplicità?  

Mecna: stare su un palco è come stare su un disco, c’è una magia che mi permette di essere me stesso al 100%. Non so perchè succede, ma succede. Mi è capitato di riuscire ad esprimere alcuni sentimenti solo in musica e non nella vita reale.

 

Qual è il gesto più significativo che hai fatto per una donna?

Mecna: ho perso il conto.

 

Cosa pensi della scena rap e trap italiana attuale?

Mecna: spacca.

 

Se potessi scegliere, nel panorama italiano come in quello internazionale, con chi ti piacerebbe collaborare? 

Mecna: DVSN

 

Usi Shazam? Se sì, ci elenchi le ultime tre canzoni che hai cercato con l'app? 

Mecna: no, non lo uso perchè di solito conosco tutti i pezzi che ascolto! (Ride). No, seriamente non lo uso, se non conosco un pezzo riconosco almeno chi canta o chi produce, quindi poi me lo vado a cercare da solo.

 

Cosa ascolti di più ultimamente?

Mecna: 070 Shake. Da 4 mesi, soltanto lei.

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A cura di Giorgia Salerno

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MECNA
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